luglio 07, 2007

Vittime civile iraquene: notizie di stampa

Vittime civili afghane: notizie dalla stampa

Versione 1.0

I titoli e gli estratti sono originali. Gli eventuali commenti sono in corsivo:
1. Reuters Italia, 7.7.07: Raid aerei Nato e Usa uccidono ancora molti civili afghani. Le morti paiono destinate ad approfondire il malcontento della popolazione per le forze straniere e il governo afghano sostenuto dall'Occidente. I danni e le vittime civili, dicono gli analisti, provocano anche un aumento delle adesioni fra le fila dei talebani.

giugno 15, 2007

La Cisgiordania

Versione 1.0

Nell’intricato conflitto arabo-israeliano-palestinese la Cisgiordania sembra per Israele il boccone più ghiotto delle sue conquiste coloniali. Ogni analisi che ne vuol fare non può prescindere da una guerra ideologica in atto, dove l’analista stesso non può restare neutrale. O si è dalla parte di Israele, ritenendo che abbia un diritto divino all’occupazione di terre prima abitate da popolazioni che ne sono state scacciate con la violenza... (segue)

giugno 14, 2007

L’industra dell’Olocausto. Note in margine al libro di Finkelstein

Versione 1.0

Ho intrapreso la lettura del libro di Norman G. Finkelstein, L’industria dell’Olocausto, nell’edizione economica della vecchia e gloriosa BUR. È questa una delle conseguenze dirette della vicenda teramana connessa alla mancata libertà di parola di quanti volevano ascoltare il francese Faurisson. Mi trovo costretto a prendere conoscenza di una letteratura che prima non rientrava nella sfera dei miei interessi più diretti. Del resto, l’argomento mi sembra sti al centro della geopolitica contemporanea. Nessuno che abbia il senso della realtà potrà negare l‘esistenza di interessi imperiali americani in Medioriente. Se la sola Italia è disseminata di basi militari americane con parecchie decine di migliaia di marines che si comportano come in terra coloniale, tutto lo stato d’Israele è una superbase americana in Medio Oriente. Mi sembra ovvia la funzione strategica dello stato d’Israele per la politica imperiale americana. Come Europeo, penso che interesse dell’Europa sia un sistema di relazioni pacifiche con tutto il mondo arabo. Non vedo nessun interesse a fornire copertura ad una politica americana-israeliana. Via via che procedo nelle conoscenze mi sembra sbagliata in linea di principio anche la più ridotta e simbolica presenza italiana ed europea in Medio Oriente. Gli USA – se vogliono – la loro guerra se la facciano da soli, non con la copertura morale ed ideologica degli Europei. E qui veniamo al punto che direi sia principalmente trattato da Finkelstein. L’operazione Olocausto è una forma di guerra ideologica.

1.
Prima e dopo la guerra del 1967

Mancava alle mie conoscenze ed alla mia comprensione la posizione degli ebrei americani nei confronti di Israele e dell’ideologia dell’Olocausto. Vi è uno spartiacque temporale. prima e dopo il 1967 vi è un mutamento di posizioni ed atteggiamento sia da parte della presidenza USA sia da parte dell’influentissima “lobby ebraica” americana. Questo è il termine che usa Finkelstein ed è un’espressione della lingua italiana che si può lecitamente usare senza che il Mantelli torinese possa pretendere di dettarci lui le espressioni italiane che si possono o non possono usare. È di un’immane, sconfinata idiozia la pretesa degli strateghi londinesi che hanno teorizzato essere “antisemita” ciò che gli ebrei o i filoisraeliani percepiscono come “antisemita”. Pertanto, secondo questa idiozia messa per iscritto anche in libri italiani basta che un ebreo in un giorno di sole si immagini che piova ed ecco che deve necessariamente piovere. Al tempo stesso secondo gli idioti londinesi costituisce “antisemitismo” equiparari la condotta militare israeliana al nazismo, mentre vale qualificare come nazisti i musulmani. Ed è quanto si trova in un libro prodotto da questa combricola in servizio civile su suolo italiano. È eloquente il libro di Carlo Panella, qui sulla mia scrivania: Fascismo islamico. Per rigore filologico ne terminerò l’analisi, ma mi sono bastate le prime pagine per capirne la totale inconsistenza e la natura propagandistica.bellicista al pari dei libri di Ottolenghi, Nirenstein, Magdi Allam che con noia e pazienza infinita termineremo di leggere, autoinfliggendoci non poca tribolazione. Diverso è il discorso con Finkelstein, che è un ebreo purosangue e che riscatta gli altri ebrei. Dal suo libro si può apprendere e comprendere cose nuove. Intanto annoto e segnalo il discrimine temporale del 1967.

(segue)

giugno 07, 2007

La guerra dei sei giorni

Avevo diciassette anni e facevo il liceo a Roma, quando sui giornali veniva data la notizia della fulminea guerra di Moshé Dayan, il generale con l’occhio bendato. Anche nella mia insegnante di storia ricordo una sorta di ammirazione per la bravura degli israeliani. Io era ancora troppo giovane per interessarmi o appassionarmi ad un evento per me lontano e fondamentalmente estraneo. Adesso mi rendo conto che quello fu un evento centrale della storia contemporanea, che adesso tento qui di studiare sulla base di una documentazione che attingo qua e la dalla rete. Segue per primo un link dall’Unità con un articolo che ripreso dall’agenzia filoisareliana “Informazione Corretta” supera il mio vaglio critico proprio per il fatto di non essere apprezzato dai Corretti Informatori, che non possono prendersela con l’Unità più di tanto. Ùn’idea mi sembra importante nell’articolo. È vero fu una vittoria per gli israeliani ed una cocente sconfitta per gli arabi. A quella guerra però non è mai seguita una pace ed è questo il suo limite. Anche se non sempre combattuta, è come se quella guerra non fosse mai cessata. Gli arabi, in apparenza deboli e sconfitti, sono in realtà forti perché non hanno mai deposto la loro “ostilità” e mai si sono arresi. Contro un nemico del genere non si può vincere. I più grandi politici della storia sono quelli che hanno saputo costruire la pace più che vincere una guerra.

Link di approfondimento e documentazione:

1. Rachele Gonnelli: La pace che non ci fu e un documento segreto. Qualche estratto di un articolo interessante nella sua interezza: «Fu una vittoria, uno straordinario successo militare ma non portò nessuna pace. E questo ha generato, sedimentato delusione anche nei vincitori. Lo testimoniano le analisi demografiche. Ci fu, sull'onda dell'entusiasmo della vittoria, una forte immigrazione ebraica dagli Stati Uniti (da 700 a circa 7-8mila, la più forte ondata migratoria prima di quella dall'est europeo dopo la caduta del muro di Berlino). Un'immigrazione di qualità- come si dice oggi - scienziati, intellettuali, che però nel giro di pochi anni (nel 58 percento dei casi secondo gli studi di Sergio Della Pergola ) fecero ritorno nei paesi d'origine perché delusi dalle condizioni di vita che si trovarono ad affrontare».

2. La guerra dei sei giorni nella memoria rievocativa di Fiamma Nirenstein. Tutto ciò che scrive Fiamma Nirenstein è significativo per il suo alto grado di faziosità e partigianeria. A suo modo ciò che dice ha un valore documentario, ma di una sorta di patologia politica. Era in costume da bagno. Che spettacolo!

TESTI

1.
Tom Segev intervistato sulla “Guerra dei sei giorni”

Ne prendo il testo da Informazione Corretta, che ne da una valutazione ed interpretazione negativa. Buon segno per Segev, di cui sto leggendo “Il Settimo Milione”, volume che avevo in casa e non avevo finora letto, capitato nella mia biblioteca piuttosto per caso. Leggo nella fascetta editoriale che lo stesso Segev è autore di un controverso libro sulla fondazione dello Stato di Israele. Nel “Settimo Milione” l’argomento è sfiorato, almeno nella parte che ne ho finora letto. Sarà interessante dello stesso autore leggere uno specifico libro sulla fondazione dello Stato ebraico. Dalle letture finora fatte mi sembra ognor più evidente la connessione fra Olocausto, fondazione dello stato d’Israele, guerra in Medio Oriente, sua colonizzazione, interessi startegici degli USA, necessitò di una mortificazione continua dell’Europa con infiniti giornate e musei della memoria, carcere duro per quegli storici che rompono le uova nel paniere.

BEIRUT — «Sarebbe stato meglio non farla. La Guerra dei Sei Giorni per Israele è stata deleteria e le conseguenze le stiamo pagando tutt’ora. Quarant'anni fa, alla vigilia dell’attacco del 5 giugno 1967, sbagliammo nel lasciarci accecare dal panico della sopravvalutazione della minaccia araba. Poi, il settimo giorno, sbagliammo ancora nel farci travolgere dall’euforia della vittoria. I fatti hanno dimostrato che invece non c’era un bel niente da festeggiare: era l’inizio dell’occupazione delle terre arabe, con il suo bagaglio di immoralità, corruzione, ingiustizie, che hanno creato le condizioni per la violenza, le tragedie, il terrorismo, persino le guerre degli anni seguenti».


È dominato da un diffuso senso di pessimismo il bilancio che Tom Segev traccia nel suo «1967: Israele, la guerra e l’anno che trasformò il Medio Oriente». Un volume pubblicato in ebraico già due anni fa, ma la cui edizione inglese appare proprio ora in concomitanza al quarantesimo di quello che lui definisce «l’anno più lungo della storia contemporanea», e che resta oggetto di accese polemiche. 
Giornalista per il quotidiano israeliano Haaretz, 
commentatore, autore di numerosi libri controversi, Segev ce ne parla per telefono dagli Stati Uniti, dove sta tra l’altro preparando una biografia su Simon Wiesenthal, il celebre «cacciatore di nazisti» scomparso due anni fa.


Dunque la Guerra dei Sei Giorni fu un errore? 
«Avremmo dovuto far di tutto per evitarla. Però mi sembra che con gli egiziani il conflitto fosse inevitabile. Non tanto per causa loro, quanto per colpa nostra. La società israeliana di quel tempo era profondamente insicura, ansiosa, spaventata, ci si aspettava un secondo Olocausto. Come ho appena scritto anche sul New York Times, il terrore di essere totalmente annullati dall’esercito di Nasser spinse i dirigenti israeliani a ragionare con le emozioni, con il cuore, e non con il cervello». 
Dove allora si poteva evitare la guerra? 
«Rinunciando ad attaccare Giordania e Siria. Non dovevamo prendere Gerusalemme Est, né tanto meno la Cisgiordania con i suoi due milioni di abitanti palestinesi. Quanto alle alture del Golan, il conflitto del 1973 ha poi dimostrato che dal punto di vista strategico sono del tutto inutili». 
Però re Hussein di Giordania già il primo giorno dei combattimenti sul fronte egiziano ordinò alle sue artiglierie di sparare sulla parte israeliana di Gerusalemme, anche se poco prima lo stesso Moshe Dayan lo aveva invitato a restare fuori dal conflitto. 
«Dovette farlo, per non essere messo al bando dal mondo arabo. Israele per punirlo poteva distruggere il suo esercito, addirittura catturarlo, umiliarlo come gli americani hanno fatto con Saddam Hussein. Ma l’occupazione della Cisgiordania ha avuto un effetto boomerang gravissimo per noi. E prendemmo Gerusalemme, con i massimi luoghi santi cristiani e musulmani, senza neppure consultare un esperto di diritto internazionale. Ci ritrovammo a dover gestire una situazione per cui assolutamente non eravamo preparati». 
Le critiche contro di lei abbondano.

Tra i tanti, lo storico israeliano Benny Morris l’ha accusata di aver trasformato quella guerra in una «rappresentazione farsa», specie non tenendo conto delle intenzioni arabe e della realtà politica e militare del tempo. 
«Altri storici hanno studiato le vicende politiche e militari della guerra del 1967, non è difficile inquadrarla nel contesto della Guerra Fredda. Nessuno invece ha accesso diretto alle fonti arabe per quel periodo. Gli archivi sono totalmente chiusi. Qualcuno ha utilizzato i diari di alcuni generali egiziani, che hanno inevitabilmente un valore molto limitato. Ho invece preferito concentrarmi sulla società israeliana e sulla percezione che aveva allora della minaccia araba. In verità nessuno di noi sa bene cosa volesse Nasser ordinando alle sue truppe di entrare nel Sinai. Intendeva davvero distruggere Israele? No lo so. Posso però dire che i dirigenti israeliani erano certi dell’approssimarsi di un secondo Olocausto, paragonavano Nasser a Hitler». 
Questa «sindrome dell’Olocausto» è ancora presente oggi? 
«Assolutamente sì, fa parte integrante della nostra identità nazionale. Basti vedere come in Israele si prendono sul serio e alla lettera le minacce che arrivano dall’Iran. In alcuni casi è pura strumentalizzazione politica, in altri si tratta di un sentimento genuino».


Allora Fatah aveva cominciato le azioni di guerriglia da un paio d’anni, e negli ultimi mesi le aveva intensificate. Non avvalora le tesi di Benny Morris il fatto che gli attentati dei palestinesi fossero in crescita ancora prima dell’occupazione di Cisgiordania e Gaza? 
«Si affacciava alla storia una nuova generazione di palestinesi nati dopo la guerra del 1948. Gente che aveva visto le sofferenze dei padri, vissuto l’umiliazione di essere profughi, visto i nuovi profughi del 1967, circa 250 mila. Israele pensò di poterli battere con l’esercito. Ma tutta la storia dal 1967 insegna che le misure militari servono a poco contro guerriglia e terrorismo». 
Nel suo libro sottolinea lo scontro tra i generali sabra, i «nuovi ebrei» nati in Israele, con il loro ethos guerriero e decisionista incarnato dall’allora capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, e i politici titubanti, indecisi, ancora legati al mondo ebraico della diaspora, quale era il premier Levi Eshkol. Una dicotomia ancora attuale? 
«No. Oggi politici e militari appartengono ormai alla stessa generazione diventata adulta dopo quella guerra. L’attuale premier Ehud Olmert nel 1967 aveva 23 anni, stava entrando alla Knesset. Lui e gli altri leader israeliani di oggi sono tutti infinitamente più cinici, individualisti. Il loro fine è il puro mantenimento del potere, a qualsiasi prezzo. Si comportano normalmente, come se fossero nel parlamento italiano, dimenticando però che qui i problemi sono davvero eccezionali. Basti vedere come Olmert resti al suo posto, nonostante tutte le accuse che gli sono rivolte per gli errori commessi durante la campagna militare in Libano dell’anno scorso. Un qualsiasi dirigente della generazione che guidò la guerra del 1967 nei suoi panni si sarebbe già dimesso da un pezzo».



giugno 03, 2007

La striscia di Gaza

Versione 1.3

Devo questa pagina a Fabrizio, che evidentemente ha messo piede nel territorio che descrive così bene che quasi quasi anche io mi ci ritrovo. Ne riporto integralmente il testo che mi serve come base per uno studio da scrivania. I links sono miei. Anche le immagini sono da me aggiunte tratta qua e là. Grazie, a Fabrizio.


ac
1.
La Striscia di Gaza, una discesa agli inferi


La Striscia di Gaza è un posto strano. Ci vivono un milione e duecentomila palestinesi, ma il 42% del territorio rimane sotto controllo militare israeliano. Percorrerla per tutta la sua lunghezza trasforma il tuo naturale senso delle distanze, dove 42 chilometri non sono molti da percorrere in una giornata. Qui questo concetto è relativo. Delle volte 42 chilometri possono richiedere poco tempo ma altre volte anche giorni interi. La Striscia è anche una discesa agli inferi. Un inferno il cui primo girone è Gaza City con i suoi due campi profughi super affollati, i suoi murales che trasudano sangue e voglia di vendetta ma anche con la sua società viva, da grande città. E' il girone dove ci sono gli uffici delle organizzazioni non governative, il quartier generale dell’UNRWA. Ci sono anche le Autorità, le rappresentanze diplomatiche. Ci sono i politici di maggior spicco, e i capi carismatici dei gruppi terroristici come ad esempio lo sceicco Yassin, il capo di Hamas. A Gaza city c'è anche il mare al quale i pescatori locali, con pochi mezzi, cercano di strappare poco pesce che magari va sulla tavola dei ristoranti che servono i pochi ricchi. E' il posto dove la maggior parte delle delegazioni straniere si ferma perché non è detto che ci sia il tempo di percorrere i 42 chilometri della Striscia in una sola giornata.

Nella “città” ci sono anche le più grandi e importanti università. Quando si decide, poi, di andare a sud e proseguire il viaggio nel secondo girone; il percorso è scontato e stabilito dalle torrette israeliane e dagli accordi stipulati in un periodo in cui sperare nel futuro era consentito. Il secondo girone è formato da due villaggi moderni che si guardano e dalla confusione architettonica dei campo profughi. Il primo villaggio si può vedere solo da lontano, è circondato da una vasta area resa incolta dall’imposizione militare il cui braccio è un gregge di bulldozer super corazzati. Questo villaggio si chiama Netzarim ed è uno dei 18 insediamenti israeliani della Striscia. Di Netzarim si vedono le torri di difesa, il verde, dato dallo sfruttamento dell'acqua che viene usata senza limitazione per irrigare le coltivazioni, il consumo pro capita d'acqua per i coloni della Striscia di Gaza, infatti, è di 1.000 metri cubi, contro i 172 palestinesi. Un’altra cosa che si nota sono i tetti rossi delle case abitate dai coloni israeliani a partire dal 1972.

Quasi di fronte, separati da un deserto artificiale c’è la cittadina di Zhara, che significa rosa, costruita con moderni palazzi circa otto anni fa per accogliere le persone che, tornate dall’esilio, hanno formato la nervatura centrale dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma, purtroppo, si sono portate dietro anche malcostumi quali corruzione e cattiva amministrazione. Zhara paga la sua vicinanza con Netzarim proprio nel suo palazzo più alto che guarda la spianata prospiciente l’insediamento e che ha le ferite tipiche dei colpi di cannone e di arma da fuoco che hanno aperto finestre più ampie di quelle previste dall’architetto. Il mare di fronte a Netzarim guarda la strada che ogni giorno porta migliaia di mezzi fra cui taxi, autobus, camion, auto private e carretti trascinati da asini da nord a sud e da sud a nord, dove il concetto di sud è dato dalla chiusura o meno del check point o dalla presenza dell'IDF. Già i bulldozer israeliani hanno ferito questa strada con incisioni che ne hanno asportato l’asfalto per alcuni tratti e hanno desertificato tutto quello che sorgeva ai suoi lati. Questo pezzo di strada e di spiaggia cade formalmente sotto amministrazione civile militare israeliana anche secondo gli accordi di Oslo e pare che proprio arrogando questa autorità, le forze di sicurezza israeliane, costruiranno l’ennesimo check point che formalmente avrà lo scopo di dare più sicurezza ai 220 abitanti dell’insediamento ma come risultato pratico avrà quello di intralciare ulteriormente il traffico palestinese.

Scorrendo sulla strada e lasciata alle spalle la vista di Netzarim e Zhara e dopo aver visto in lontananza i campi rifugiati dell’area centrale si fa una svolta di novanta gradi e lasciando la vista del mare si entra nel villaggio di Dheir El Balah che prende il suo nome dai datteri che qui crescono in abbondanza sulle palme risparmiate dai voraci bulldozer israeliani. Qui sono molti i volti che guardano da cartelli dipinti a mano e che rappresentano giovani combattenti morti in scontri a fuoco con gli israeliani o magari facendosi saltare in qualche posto in Israele spargendo l'ennesimo sangue innocente di questa guerra che non è guerra. I volti sono fieri, sono già icone di se stessi e non c'è traccia della smorfia di dolore o di paura che sicuramente ha solcato i loro volti al momento della morte. La mano che traccia questi volti è la mano di un pittore "semplice e popolare" e nel loro realismo questi dipinti mi ricordano gli ex voto appesi nei nostri santuari. Per me, quando ci passo attraverso, Dheir El Balah diventa il posto in cui si prende fiato prima di entrare nei gironi del sud, più faticosi da vivere e da vedere oppure il posto dove, andando verso nord, un certo sollievo ti assale rivedendo il mare. Dheir El Balah oltre a essere il posto dei datteri e dei dipinti è anche un campo profughi che ospita le persone fuggite dal neonato stato di Israele nel '48, lo si capisce dalle scuole che portano le insegne dell'UNRWA e la bandiera delle Nazioni Unite.

Passato questo villaggio si viene proiettati in un altro deserto che preannuncia il chek point di Abu Holi. Il check point è un tratto di strada di poco più di un chilometro che ha ai suoi estremi due torrette militari. In realtà Abu Holi è un piccolo incrocio molto militarizzato. Le due strade che si incrociano sono quella palestinese e quella dei coloni israeliani, che arriva da Israele e dall’insediamento di Kfar Darom (costruito negli anni ’70 con 200 abitanti), per entrare nel blocco di Katif (Gush Katif) che occupa tutta l’area costiera nelle municipalità di Khan Younis e Rafah, negando, negli ultimi due anni, l’accesso al mare ai palestinesi. La strada di Abu Holi è divisa in due da un muro, da una parte passano gli israeliani e dall’altra i palestinesi. Il passaggio attraverso questo check point non è sempre scontato, molte volte senza un motivo le forze di sicurezza israeliane chiudono e allora si formano code e ingorghi chilometrici tutto in nome della sicurezza di Israele.

Quando si formano le code e il check point è chiuso non sono i “terroristi” a rimetterci ma bensì gli studenti, i lavoratori, i piccoli e grandi commercianti o chi più semplicemente vuole andare a vedere il mare. La coda si trasforma in un piccolo mondo pronto subito a scomparire al via dato dai soldati chiusi dentro la torretta. Ci sono una miriade venditori di generi di primo conforto, capannelli di persone che parlano di tutto, poi ci sono i ragazzini pronti a fare da numero sulle rare macchine private che viaggiano con un solo passeggero. Attraverso Abu Holi, infatti, è vietato passare da soli su di una macchina, i soldati temono attacchi suicidi. Una volta proiettati fuori da questo budello stradale fra due torrette, io mi sento un po’ a casa, siamo infatti a Qararah che è la nostra casa da almeno cinque mesi.

Anche Qararah ha un posto nella rassegna delle disgrazie della Striscia, è incastrato a nord dalla strada dei coloni, chiamata Kussufim Street, a ovest, dal blocco di Katif e a est dal confine con Israele dove per tutta la sua lunghezza si estende una fascia di sicurezza di circa 500 m non coltivabile. L’unica via d’uscita è verso sud in direzione della città di Khan Younis. Per “motivi di sicurezza” 47 case sono state abbattute negli ultimi due anni; sorgevano troppo vicine alla Kussufim Street e per lo stesso motivo tutte le parti del villaggio che sorgono nelle vicinanze della strada e dell’insediamento sono sotto coprifuoco dal tramonto all’alba. Khan Younis è una città disordinata che ha molte ferite date dalla vicinanza con le difese israeliane. Il campo profughi della città ha una strada ampia che lo attraversa e che in passato andava diretta al mare, ora si ferma di fronte ad una sbarra gialla che segna l’inizio del “regno di Katif” dove ci abitano circa 4400 coloni dei 5940 di tutta la Striscia (dati agosto '99).

Il campo e la zona sono dette Tufah (mela) e le case che hanno la vista al mare e al muro che protegge l’insediamento sono “mangiate” dalle armi automatiche che a volte rispondono a provocazioni palestinesi ma molte volte sparano fuoco senza motivo solo per paura e per far paura. Anche qui ci sono circa settanta case che non esistono più. Le torrette sono molte e i soldati sono puntini invisibili in lontananza. Sono a guardia di questa porta che permette, sfiorando gli insediamenti israeliani, di entrare nei villaggi che formano la zona detta Mawasi, la casa di circa 4500 palestinesi. La vita di questa gente è una vita dove, il poter rientrare a casa la sera oppure aspettare anche giorni davanti ad una sbarra gialla, dipende da una carta magnetica in cui il nome diventa un codice a barre, da ordini militari o semplicemente dall’umore dei soldati che sono di guardia. Spesso aspettiamo assieme a loro anche se non capiscono le nostre flebili parole di conforto espresse in una lingua straniera. Spesso ci si sente impotenti. Un altro posto dove l’impotenza ti stringe lo stomaco, a Khan Younis, assomiglia ai palazzoni della Sarajevo assediata. Namsawi, infatti, guarda le torrette che difendono il blocco di Katif ed è un quartiere di case popolari costruito con i soldi degli aiuti austriaci ma che si è venuto a trovare in un posto di scontro.

Anche qui la rabbia delle armi ha in parte modificato i disegni degli architetti. Namsawi è il posto dove arrivano quelli che hanno già perso la loro casa, chi ha Rafah, chi a Tufah e qualcuno anche a Qararah. Gli appartamenti abitati sono ormai solo quelli che stanno dalla parte opposta rispetto alle torrette israeliane e le storie che si sentono raccontare sono quelle della rabbia di chi si rende conto di vivere sotto tiro. Mohamed di dodici anni abita a Namsawi, qualche mese fa un proiettile si è conficcato nella sua giovane gamba e da lì, i pochi chirurghi della Striscia, non riescono ad estrarla. Mohamed si muove a fatica e per questo non va più a scuola, sua madre soffre di problemi psicologici da quando, l'anno scorso una granata è entrata nel loro appartamento attraverso una finestra; suo padre è disoccupato, tutti dormono assieme nella stanza più riparata dell'appartamento e i suoi molti fratelli piangono la notte quando sentono sparare. La famiglia di Mohamed è originaria di Rafah da dove è partita circa un anno e mezzo fa dopo che la loro casa è stata abbattuta per "motivi di sicurezza". Molte famiglie, più di duecento, hanno perso la loro casa a Rafah negli ultimi due anni. Rafah è l'ultimo e peggiore girone dell'inferno chiamato Striscia di Gaza. Per arrivare alla cittadina che sorge a vicino al confine egiziano non si corre sulla strada principale, quella è chiusa da anni perché passa attraverso all'insediamento di Morag (costruito nel '72 con 150 abitanti), si percorre, infatti, una strada che aggira l'ostacolo e che lambisce l'aeroporto internazionale di Gaza, costruito con fondi UE, amputato della sua pista e del radar dagli aerei e dai buldozer israeliani circa due anni fa. Rafah è una città ferita dai buldozer che hanno trasformato molte case, che sorgevano a ridosso del confine con l'Egitto, in sabbia. Qui lo scontro è forte, gli israeliani tengono il controllo della frontiera dove tutti i giorni centinaia di persone si accalcano per uscire dalla prigione che ormai è diventata la Striscia di Gaza. I poliziotti palestinesi di frontiera fanno poco più che i portinai e il passaggio è deciso sempre dall'ufficiale israeliano. Le frontiere sono sotto controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo anche se quest'anno avrebbero dovuto passare direttamente sotto il totale controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese. A Rafah sono molte le spie e gli informatori israeliani e anche i gruppi palestinesi armati sono molto attivi. Abitare a Rafah nei quartieri vicino alla frontiera significa anche alzarsi nel cuore della notte con i soldati che ti intimano lo sgombero lasciandoti solo poche ore per prendere la tua vita ed andartene. Poi dopo qualche tempo faticherai anche a capire dove sorgeva la tua casa. La vita a Rafah vale poco, ne è la prova il fatto avvenuto il 17 ottobre scorso, quando un tank israeliano, in pieno giorno, in risposta ad una presunta provocazione palestinese ha sparato almeno tre colpi di cannone sul quartiere detto "blocco O" uccidendo sette civili e ferendone almeno settanta. Tra le vittime non c'erano terroristi ma c'era Shatma, di otto anni, che dormiva nel suo letto. A Rafah ci sono i tunnel e anche questo ricorda la Sarajevo assediata. Anche qui come a Sarajevo dal tunnel passano armi, qui vanno a finire nelle mani dei gruppi armati che stupidamente e con la disperazione negli occhi cercano di fare guerra contro gli israeliani in una maniera che non potrà mai portare la libertà a questo popolo sofferente. Sono ormai arrivato al quarantaduesimo chilometro e l'angoscia mi stringe la gola, ma non c'è solo disperazione in questo grande ghetto che si chiama Striscia di Gaza. La speranza vuole dire il sorriso dei bambini, il volto riconoscente di una donna che vive in tenda dopo l'abbattimento della sua casa e che ti ringrazia perché tu le sei amico e che ti invita a cena anche se è poco il cibo che ha a disposizione. La speranza è un gruppo di persone che pensa che ci sia un modo diverso dall'andare in Israele ed usare il proprio corpo come bomba per opporsi a questa ingiustizia quotidiana. Questa gente lavora con la società civile e con i bambini. C'è chi, come Hussam, dirige un centro per aiutare i bambini con problemi di apprendimento e che crede che insegnare loro che hanno dei diritti e che c'è una seconda via sia la strada per portarli lontano dai gruppi fondamentalisti che predicano l'odio. La speranza c'è in chi si sforza di non odiare anche se tutti i giorni vede di Israele solo la faccia violenta e coloniale. La speranza è una parola che qui in Medio Oriente la gente ha ormai paura a pronunciare: Pace.

Links aggiuntivi:
1. Wikipedia: accordi di Oslo

2.
Un'intera nazione prigioniera di Israele
Fonte: il Manifesto

di John Pilger

L'uso selettivo della lingua da parte dei media e la censura per omissione del giornalismo occidentale coprono la scientifica violenza israeliana Gaza deve (dovrebbe) essere mostrata per quello che è: un laboratorio israeliano, sostenuto dalla comunità internazionale, dove gli essere umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più perverse di soffocamento economico e riduzione alla fame.


Si sta consentendo a Israele di distruggere la nozione stessa di Stato palestinese e di tenere prigioniera un'intera nazione. Questo appare in modo evidente dagli ultimi attacchi su Gaza, la cui sofferenza è diventata una metafora della tragedia imposta ai popoli in Medio Oriente ed oltre. Secondo il notiziario britannico Channel 4 News, questi attacchi «erano mirati contro importanti militanti di Hamas» e contro «l'infrastruttura di Hamas». La Bbc ha parlato di uno «scontro» tra gli stessi militanti e gli F-16 israeliani.

Consideriamo uno di questi scontri. L’automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell’anno scorso in Palestina. Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell’automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.

«Secondo alcuni», ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo ...». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall’interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c’è nessuna guerra. C’è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza \. Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappe, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».

Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un'Olp forte e laica utilizzando un'alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall'Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.
Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l'accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l'Iraq di oggi...».
Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l'acqua e l'aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare... La striscia di Gaza deve \ essere mostrata per ciò che è... un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».
Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza... Ombre di esseri umani vagano tra le rovine... Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.
Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all'Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.
Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l'invasione dell'Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell'università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L'uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.
Ci sono eccezioni lodevoli. L'inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l'Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l'Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c'è stata una risposta soddisfacente.
Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».
L'ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall'interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.
Traduzione Marina Impallomeni


Cronache attuali

5.6.2007: Carri armati israeliani a Gaza, un’azione di routine.

aprile 07, 2007

Il linguaggio dell’Impero. A Colloquio con Domenico Losurdo

IL LINGUAGGIO DELL’IMPERO
Note e riflessioni in margine
al libro di Domenico Losurdo


Sommario: 1. –

1.
Prologo


Sono appena tornato dalla grande Libreria Feltrinelli sotto casa, una sorta di supermercato del libro, dove ho comprato il volume (p. 323) di Domenico Losurdo: Il Linguaggio dell’Impero. Lessico dell’ideologia americana. Non avrebbe senso aver speso 20 euro se non avessi la seria intenzione di leggere il libro e di leggerlo tutto. Del resto, ho sempre trovato interessanti le cose di Domenico, di cui invidio la prolificità. Io al confronto scrivo molto poco, soprattutto quando si tratta di dare un testo alla stampa. Mi blocca la fissità del testo ormai immodificabile, appena uscito dalla tipografia. Ma non voglio insistere su questi aspetti psicologico. La premessa mi serve solo per dire che il fenomeno blog ha cambiato qualcosa in me. Esistono sempre da Feltrinelli numerosi libri, aggiornatissimi, che in centinaia e centinaia di pagine descrivono la crescita esponenziale ed i nuovi aspetti del fenomeno, che io prendo sul serio e non come una csa da ragazzi e per ragazzi. Di blogs ne ho creato addirittura venti, che per me corrispondono a venti libri che posso continuamente aggiornare e modificare e perfino distruggere. Meno curato di altri è questo blog dedicato alla Geopolitica. Se è meno curato, non significa che mi interessa di meno. Tutt’altro. Un'occasione per curarlo e ristrutturarlo mi è ora data dal libro di Domenico Losurdo, di cui in altri tempi avrei potuto fare una recensione per una delle mie riviste, ma poi restava un discorso morto, se non era un semplice fatto pubblicitario, per fare spesso un piacere all’amico. Adesso invece posso dialogare con il libro e con il suo autore via via che lo leggo in sequenza e lo commento. E tutto ciò addirittura in pubblico. Poco importa che i lettori potenziali siano in genere Quattro. Sono sufficienti per fare un pubblico, un grande pubblico.

Ma veniamo ora al libro, il cui inizio già suona in sintonia con le mie corde. Da modesto o discreto studioso di Carl Schmitt, non posso sopportare la superficialità delle analisi con le quali si è iniziata una guerra sempre più sanguinosa. Non solo. Siamo costretto ad ascoltare nelle nostre case discorsi e talk show uno più idiota dell’altro, che ci vengono irradiati dai mezzi busti televisivi che con le sciocchezze che dicono fanno pure tanti soldi, guadagnando cifre astronomiche. Ciò che mi irrita è la genericità del termine “terrorismo”. Non significa nulla, ma su questo nulla e per questo nulla si è andati in guerra e ci si vuol convincere che dobbiamo accettare questa guerra. Mi sono trovato casualmente in dibattito con delle persone importanti come Gianfranco Fini e Antonio Polito in occasione di un libro di propaganda bellica, scritto da un ebreo filoisraeliano, tal Ottolenghi. In un altro post, ampio, elaborato e non ancora finito, ho trattato di questo argomento: ad esso rinvio, con l'avvertenza a chi volesse leggere, che devo ancora lavorarci sopra. Lo farò quando ne avrò il tempo e la voglia.

Losurdo mi piace perché nel suo libro prende proprio da qui avvio: la definizione del terrorismo, o meglio osserva come la principale argomentazione di quanti hanno voluto la guerra e la propagandano è la lotta al terrorismo. Addirittura, per questa via si è arrivati alla guerra preventiva. Forse molti ricorderanno a questo proposito il coraggio di una donna tedesca, la quale disse che non vi era nessuna differenza fra Hitler e Bush: anche quelle di Hitler erano guerre preventive. Per averlo detto, la coraggiosa signora fu costretta a dare le dimissioni. Il caso è istruttivo. Purtroppo, di ciò che può essere istruttivo si parla sempre poco e ci si dimentica facilmente. Di casi connessi a fatti di sesso (Vallettopoli, Sircana, ecc.) si è invece letteralmente martellati. Divenendo con l'avanzare dell'età sempre più sospettoso, ritengo che la cosa non sia casuale: si devono nascondere le cose serie dietro un cumulo di spazzatura e di notizie frivole e futili. Questo la nostra libertà di stampa e di informazione, che guarda caso è uno dei motivi, dei valori, per i quali dovremmo fare la guerra a popolazione che non godono dei nostri agi. Connessi ad un'insufficiente analisi del terrorismo sono una miriade di giudizi moralistici che vengono invece tranquillamente ignorati quando a compiere le stesse azioni criminose o illegali sono agenti della CIA o di altri servizi segreti. Ovviamente (avverbio abituale in Gianfranco Fini) operano a fin di bene, per la causa giusta, per la libertà e la democrazia, la nostra libertà e democrazia che diventerà anche la loro, dopo che avremo sconfitto il terrorismo. Losurdo non manca di mettere a nudo l’azione della CIA in diversi contesti storici.

(segue)

gennaio 04, 2007

L'Impero d’America e d’Europa

La notizia del giorno, messa in evidenza dalla rassegna stampa di Radio radicale e ripresa da Pannella che ricorda il progetto radicale degli Stati Uniti d’America e d’Europa, è data dalla richiesta della Merkel di una più stretta unione economica fra Unione Europea e Stati Uniti. I miei personali timori di cittadino europeo prendono consistenza. L’analisi da sviluppare sarebbe qui piuttosto ampia e richiede un tempo di cui al momento non posso disporre. Mi limito ad alcuni cenni. Nella storia i processi di unificazione politica hanno una limitata tipologia: a) la conquista nella forma della pura dominazione o in quella egemonica; b) l’unione catalizzata dall’esistenza di un nemico comune. La forma dell’annessione territoriale può rientrare nel modello a. La fondazione degli Stati Uniti d’America rientra nel modello b, dove il “nemico” è stato dapprima l'Inghilterra e poi l'Europa continentale. La dottrina Monroe è l’espressione ideologica del modello imperiale americano.

In Europa, nel 1945, tutti gli Stati continentali hanno conosciuto la disfatta politica. Già fiaccati alla fine della prima guerra mondiale, hanno ricevuto il colpo di grazia nel 1945. Yalta è stato un accordo di spartizione del continente europeo. Democrazia, diritti umani, Olocausto, ecc. sono soltanto una continuazione della guerra con mezzi ideologici. Occorreva fiaccare l’Europa non solo nel corpo, ma anche nello spirito in modo che non potesse più risollevarsi. La riduzione ad un’esistenza puramente economica era la forma che avrebbe consentito ciò. Una politica analoga la si sta perseguendo nel Medio Oriente, che però sembra resistere più di quanto non sia stata capace l’Europa.

La proposta di Angela Merkel, che analizzerò attentamente in una Rassegna stampa commentata e aggiornata costantemente in questo post, sembra che rechi i frutti ultimi di una politica imperiale iniziata nel 1945. È da sottolineare che la gloriosa costruzione dell’Unione Europea non è andata oltre un’unione doganale. L’unificazione politica avrebbe dovuto iniziare dall’unificazione militare e dalla comune politica estera. Da ciò i governi europei, impiantati dalle potenze occupanti, ben si sono guardati. In fatto di politica estera seguono pedissequamente l’Imperatore americano e fanno soltanto finta di distinguersi qualche volta, ma in realtà i governanti europei soggiacciano ad ogni starnuto americano. Anime belle, si dilettano in campagne come quelle della moratoria della pena di morte, giusto per nascondere a loro stessi e ai loro cittadini la loro completa impotenza politica.

RASSEGNA STAMPA COMMENTATA

1. Angela Merkel e George W. Bush: la rovina del mondo. Il presidente di turno dell’Unione Europea a quanto si dice «insisterà per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente» e quindi «proporrà un nuovo patto economico transatlantico». È ovvio che alla guerra debba seguire la pace, se non altro la pace dei cimiteri, quando tutti i combattenti si saranno uccisi a vicenda. La ricerca della pace non può prescindere dalla ricerca delle cause della guerra, altrimenti la pace che si dice di voler cercare è soltanto una conclusione della guerra per completa debellatio del nemico. La Merkel, nata nel dopoguerra, è figlia dei tedeschi debellati dagli americani nel 1945. Dimostra di essere un prodotto riuscita della “rieducazione democratica” dei tedeschi. Da presidente di turno di quella penosa costruzione che è l’Unione Europea ritorna dal padrone americano per proporre una più avanzata forma di soggezione economica, politica e militare. Dice infatti che noi europei abbiamo raggiunto una notevole esperienza in fatto di integrazione economica in compresenza di differenti sistemi politici. Lasciando agli USA la leadership della politica mondiale si invera quella forma di imperialismo economico che gli USA hanno teorizzato con la dottrina Monroe. Un’altra donna tedesca aveva equiparato Bush a Hitler per analogia con la dottrina della guerra preventiva. È stata dimissionata, non so se proprio dalla Merkel. Farò una ricerca al riguardo. La vicenda diventa ora illuminante e istruttiva.

2. Il testo integrale dell’intervista di Angela Merkel. Il testo si trova in lingua inglese aul Financial Times del 2 gennaio 2006. Ne riporto i tratti per me più significativi. Alla domanda sul come si dovrebbe attuare la “transatlantic relationship” la Merkel risponde esattamente: «At the forthcoming EU-US summit we want to talk about ever-closer economic co-operation. Our economic systems are based on the same values. The EU and the US have sophisticated patent legislation. We have regulatory mechanisms governing our financial markets. We should be looking for ways to keep developing these together at a transatlantic level. We must watch out that we do not drift apart, but instead come closer together, where there are clear advantages for both sides. For example, it causes unnecessary friction for patent rules in the US to be structured differently from those in the EU. I think our economies can save a lot of money and effort, in stock market share offerings, for instance, or in setting technical standards. We face the same tough competition from Asian markets, and from Latin America in the future. We must join forces and co-operate, for instance in the fight for better intellectual property protection in the global market». I due sistemi economici sono basati sugli stessi “valori”. Quali sono? Sarebbe interessante approfondire criticamente questo aspetto. Non ora però. Intanto possono essere o valori di tipo prettamente “economico” oppure prettamente “politico”. Se l’economico possa poi essere diviso con un taglio netto dal politico è un ulteriore aspetto dei problema. Ma ho l’impressione che in fatto di valori Angela Merkel non abbia consapevolezza di ciò che dice. Non dobbiamo immaginarci i politici più intelligenti di quanti non dispongono del loro potere. Probabilmente Bush padre era più intellegente del figlio, quando decise di non impantanarsi oltre nella guerra contro l’Iraq e di lasciare Saddam al suo posto. La Merkel nella sua intervista parla anche della pace in Medio Oriente, ma non esce fuori dalla banalità inconcludente, mentre l’alleanza economica transatlantica costituisce un elemento di novità sul piano geopolitico, per il quale si rinvia al testo integrale dell’intervista.