Versione 1.3
Devo questa pagina a Fabrizio, che evidentemente ha messo piede nel territorio che descrive così bene che quasi quasi anche io mi ci ritrovo. Ne riporto integralmente il testo che mi serve come base per uno studio da scrivania. I links sono miei. Anche le immagini sono da me aggiunte tratta qua e là. Grazie, a Fabrizio.
La Striscia di Gaza è un posto strano. Ci vivono un milione e duecentomila palestinesi, ma il 42% del territorio rimane sotto controllo militare israeliano. Percorrerla per tutta la sua lunghezza trasforma il tuo naturale senso delle distanze, dove 42 chilometri non sono molti da percorrere in una giornata. Qui questo concetto è relativo. Delle volte 42 chilometri possono richiedere poco tempo ma altre volte anche giorni interi. La Striscia è anche una discesa agli inferi. Un inferno il cui primo girone è Gaza City con i suoi due campi profughi super affollati, i suoi murales che trasudano sangue e voglia di vendetta ma anche con la sua società viva, da grande città. E' il girone dove ci sono gli uffici delle organizzazioni non governative, il quartier generale dell’UNRWA. Ci sono anche le Autorità, le rappresentanze diplomatiche. Ci sono i politici di maggior spicco, e i capi carismatici dei gruppi terroristici come ad esempio lo sceicco Yassin, il capo di Hamas. A Gaza city c'è anche il mare al quale i pescatori locali, con pochi mezzi, cercano di strappare poco pesce che magari va sulla tavola dei ristoranti che servono i pochi ricchi. E' il posto dove la maggior parte delle delegazioni straniere si ferma perché non è detto che ci sia il tempo di percorrere i 42 chilometri della Striscia in una sola giornata.
Nella “città” ci sono anche le più grandi e importanti università. Quando si decide, poi, di andare a sud e proseguire il viaggio nel secondo girone; il percorso è scontato e stabilito dalle torrette israeliane e dagli accordi stipulati in un periodo in cui sperare nel futuro era consentito. Il secondo girone è formato da due villaggi moderni che si guardano e dalla confusione architettonica dei campo profughi. Il primo villaggio si può vedere solo da lontano, è circondato da una vasta area resa incolta dall’imposizione militare il cui braccio è un gregge di bulldozer super corazzati. Questo villaggio si chiama Netzarim ed è uno dei 18 insediamenti israeliani della Striscia. Di Netzarim si vedono le torri di difesa, il verde, dato dallo sfruttamento dell'acqua che viene usata senza limitazione per irrigare le coltivazioni, il consumo pro capita d'acqua per i coloni della Striscia di Gaza, infatti, è di 1.000 metri cubi, contro i 172 palestinesi. Un’altra cosa che si nota sono i tetti rossi delle case abitate dai coloni israeliani a partire dal 1972.
Quasi di fronte, separati da un deserto artificiale c’è la cittadina di Zhara, che significa rosa, costruita con moderni palazzi circa otto anni fa per accogliere le persone che, tornate dall’esilio, hanno formato la nervatura centrale dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma, purtroppo, si sono portate dietro anche malcostumi quali corruzione e cattiva amministrazione. Zhara paga la sua vicinanza con Netzarim proprio nel suo palazzo più alto che guarda la spianata prospiciente l’insediamento e che ha le ferite tipiche dei colpi di cannone e di arma da fuoco che hanno aperto finestre più ampie di quelle previste dall’architetto. Il mare di fronte a Netzarim guarda la strada che ogni giorno porta migliaia di mezzi fra cui taxi, autobus, camion, auto private e carretti trascinati da asini da nord a sud e da sud a nord, dove il concetto di sud è dato dalla chiusura o meno del check point o dalla presenza dell'IDF. Già i bulldozer israeliani hanno ferito questa strada con incisioni che ne hanno asportato l’asfalto per alcuni tratti e hanno desertificato tutto quello che sorgeva ai suoi lati. Questo pezzo di strada e di spiaggia cade formalmente sotto amministrazione civile militare israeliana anche secondo gli accordi di Oslo e pare che proprio arrogando questa autorità, le forze di sicurezza israeliane, costruiranno l’ennesimo check point che formalmente avrà lo scopo di dare più sicurezza ai 220 abitanti dell’insediamento ma come risultato pratico avrà quello di intralciare ulteriormente il traffico palestinese.
Scorrendo sulla strada e lasciata alle spalle la vista di Netzarim e Zhara e dopo aver visto in lontananza i campi rifugiati dell’area centrale si fa una svolta di novanta gradi e lasciando la vista del mare si entra nel villaggio di Dheir El Balah che prende il suo nome dai datteri che qui crescono in abbondanza sulle palme risparmiate dai voraci bulldozer israeliani. Qui sono molti i volti che guardano da cartelli dipinti a mano e che rappresentano giovani combattenti morti in scontri a fuoco con gli israeliani o magari facendosi saltare in qualche posto in Israele spargendo l'ennesimo sangue innocente di questa guerra che non è guerra. I volti sono fieri, sono già icone di se stessi e non c'è traccia della smorfia di dolore o di paura che sicuramente ha solcato i loro volti al momento della morte. La mano che traccia questi volti è la mano di un pittore "semplice e popolare" e nel loro realismo questi dipinti mi ricordano gli ex voto appesi nei nostri santuari. Per me, quando ci passo attraverso, Dheir El Balah diventa il posto in cui si prende fiato prima di entrare nei gironi del sud, più faticosi da vivere e da vedere oppure il posto dove, andando verso nord, un certo sollievo ti assale rivedendo il mare. Dheir El Balah oltre a essere il posto dei datteri e dei dipinti è anche un campo profughi che ospita le persone fuggite dal neonato stato di Israele nel '48, lo si capisce dalle scuole che portano le insegne dell'UNRWA e la bandiera delle Nazioni Unite.
Passato questo villaggio si viene proiettati in un altro deserto che preannuncia il chek point di Abu Holi. Il check point è un tratto di strada di poco più di un chilometro che ha ai suoi estremi due torrette militari. In realtà Abu Holi è un piccolo incrocio molto militarizzato. Le due strade che si incrociano sono quella palestinese e quella dei coloni israeliani, che arriva da Israele e dall’insediamento di Kfar Darom (costruito negli anni ’70 con 200 abitanti), per entrare nel blocco di Katif (Gush Katif) che occupa tutta l’area costiera nelle municipalità di Khan Younis e Rafah, negando, negli ultimi due anni, l’accesso al mare ai palestinesi. La strada di Abu Holi è divisa in due da un muro, da una parte passano gli israeliani e dall’altra i palestinesi. Il passaggio attraverso questo check point non è sempre scontato, molte volte senza un motivo le forze di sicurezza israeliane chiudono e allora si formano code e ingorghi chilometrici tutto in nome della sicurezza di Israele.
Quando si formano le code e il check point è chiuso non sono i “terroristi” a rimetterci ma bensì gli studenti, i lavoratori, i piccoli e grandi commercianti o chi più semplicemente vuole andare a vedere il mare. La coda si trasforma in un piccolo mondo pronto subito a scomparire al via dato dai soldati chiusi dentro la torretta. Ci sono una miriade venditori di generi di primo conforto, capannelli di persone che parlano di tutto, poi ci sono i ragazzini pronti a fare da numero sulle rare macchine private che viaggiano con un solo passeggero. Attraverso Abu Holi, infatti, è vietato passare da soli su di una macchina, i soldati temono attacchi suicidi. Una volta proiettati fuori da questo budello stradale fra due torrette, io mi sento un po’ a casa, siamo infatti a Qararah che è la nostra casa da almeno cinque mesi.
Anche Qararah ha un posto nella rassegna delle disgrazie della Striscia, è incastrato a nord dalla strada dei coloni, chiamata Kussufim Street, a ovest, dal blocco di Katif e a est dal confine con Israele dove per tutta la sua lunghezza si estende una fascia di sicurezza di circa 500 m non coltivabile. L’unica via d’uscita è verso sud in direzione della città di Khan Younis. Per “motivi di sicurezza” 47 case sono state abbattute negli ultimi due anni; sorgevano troppo vicine alla Kussufim Street e per lo stesso motivo tutte le parti del villaggio che sorgono nelle vicinanze della strada e dell’insediamento sono sotto coprifuoco dal tramonto all’alba. Khan Younis è una città disordinata che ha molte ferite date dalla vicinanza con le difese israeliane. Il campo profughi della città ha una strada ampia che lo attraversa e che in passato andava diretta al mare, ora si ferma di fronte ad una sbarra gialla che segna l’inizio del “regno di Katif” dove ci abitano circa 4400 coloni dei 5940 di tutta la Striscia (dati agosto '99).
Il campo e la zona sono dette Tufah (mela) e le case che hanno la vista al mare e al muro che protegge l’insediamento sono “mangiate” dalle armi automatiche che a volte rispondono a provocazioni palestinesi ma molte volte sparano fuoco senza motivo solo per paura e per far paura. Anche qui ci sono circa settanta case che non esistono più. Le torrette sono molte e i soldati sono puntini invisibili in lontananza. Sono a guardia di questa porta che permette, sfiorando gli insediamenti israeliani, di entrare nei villaggi che formano la zona detta Mawasi, la casa di circa 4500 palestinesi. La vita di questa gente è una vita dove, il poter rientrare a casa la sera oppure aspettare anche giorni davanti ad una sbarra gialla, dipende da una carta magnetica in cui il nome diventa un codice a barre, da ordini militari o semplicemente dall’umore dei soldati che sono di guardia. Spesso aspettiamo assieme a loro anche se non capiscono le nostre flebili parole di conforto espresse in una lingua straniera. Spesso ci si sente impotenti. Un altro posto dove l’impotenza ti stringe lo stomaco, a Khan Younis, assomiglia ai palazzoni della Sarajevo assediata. Namsawi, infatti, guarda le torrette che difendono il blocco di Katif ed è un quartiere di case popolari costruito con i soldi degli aiuti austriaci ma che si è venuto a trovare in un posto di scontro.
Anche qui la rabbia delle armi ha in parte modificato i disegni degli architetti. Namsawi è il posto dove arrivano quelli che hanno già perso la loro casa, chi ha Rafah, chi a Tufah e qualcuno anche a Qararah. Gli appartamenti abitati sono ormai solo quelli che stanno dalla parte opposta rispetto alle torrette israeliane e le storie che si sentono raccontare sono quelle della rabbia di chi si rende conto di vivere sotto tiro. Mohamed di dodici anni abita a Namsawi, qualche mese fa un proiettile si è conficcato nella sua giovane gamba e da lì, i pochi chirurghi della Striscia, non riescono ad estrarla. Mohamed si muove a fatica e per questo non va più a scuola, sua madre soffre di problemi psicologici da quando, l'anno scorso una granata è entrata nel loro appartamento attraverso una finestra; suo padre è disoccupato, tutti dormono assieme nella stanza più riparata dell'appartamento e i suoi molti fratelli piangono la notte quando sentono sparare. La famiglia di Mohamed è originaria di Rafah da dove è partita circa un anno e mezzo fa dopo che la loro casa è stata abbattuta per "motivi di sicurezza". Molte famiglie, più di duecento, hanno perso la loro casa a Rafah negli ultimi due anni. Rafah è l'ultimo e peggiore girone dell'inferno chiamato Striscia di Gaza. Per arrivare alla cittadina che sorge a vicino al confine egiziano non si corre sulla strada principale, quella è chiusa da anni perché passa attraverso all'insediamento di Morag (costruito nel '72 con 150 abitanti), si percorre, infatti, una strada che aggira l'ostacolo e che lambisce l'aeroporto internazionale di Gaza, costruito con fondi UE, amputato della sua pista e del radar dagli aerei e dai buldozer israeliani circa due anni fa. Rafah è una città ferita dai buldozer che hanno trasformato molte case, che sorgevano a ridosso del confine con l'Egitto, in sabbia. Qui lo scontro è forte, gli israeliani tengono il controllo della frontiera dove tutti i giorni centinaia di persone si accalcano per uscire dalla prigione che ormai è diventata la Striscia di Gaza. I poliziotti palestinesi di frontiera fanno poco più che i portinai e il passaggio è deciso sempre dall'ufficiale israeliano. Le frontiere sono sotto controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo anche se quest'anno avrebbero dovuto passare direttamente sotto il totale controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese. A Rafah sono molte le spie e gli informatori israeliani e anche i gruppi palestinesi armati sono molto attivi. Abitare a Rafah nei quartieri vicino alla frontiera significa anche alzarsi nel cuore della notte con i soldati che ti intimano lo sgombero lasciandoti solo poche ore per prendere la tua vita ed andartene. Poi dopo qualche tempo faticherai anche a capire dove sorgeva la tua casa. La vita a Rafah vale poco, ne è la prova il fatto avvenuto il 17 ottobre scorso, quando un tank israeliano, in pieno giorno, in risposta ad una presunta provocazione palestinese ha sparato almeno tre colpi di cannone sul quartiere detto "blocco O" uccidendo sette civili e ferendone almeno settanta. Tra le vittime non c'erano terroristi ma c'era Shatma, di otto anni, che dormiva nel suo letto. A Rafah ci sono i tunnel e anche questo ricorda la Sarajevo assediata. Anche qui come a Sarajevo dal tunnel passano armi, qui vanno a finire nelle mani dei gruppi armati che stupidamente e con la disperazione negli occhi cercano di fare guerra contro gli israeliani in una maniera che non potrà mai portare la libertà a questo popolo sofferente. Sono ormai arrivato al quarantaduesimo chilometro e l'angoscia mi stringe la gola, ma non c'è solo disperazione in questo grande ghetto che si chiama Striscia di Gaza. La speranza vuole dire il sorriso dei bambini, il volto riconoscente di una donna che vive in tenda dopo l'abbattimento della sua casa e che ti ringrazia perché tu le sei amico e che ti invita a cena anche se è poco il cibo che ha a disposizione. La speranza è un gruppo di persone che pensa che ci sia un modo diverso dall'andare in Israele ed usare il proprio corpo come bomba per opporsi a questa ingiustizia quotidiana. Questa gente lavora con la società civile e con i bambini. C'è chi, come Hussam, dirige un centro per aiutare i bambini con problemi di apprendimento e che crede che insegnare loro che hanno dei diritti e che c'è una seconda via sia la strada per portarli lontano dai gruppi fondamentalisti che predicano l'odio. La speranza c'è in chi si sforza di non odiare anche se tutti i giorni vede di Israele solo la faccia violenta e coloniale. La speranza è una parola che qui in Medio Oriente la gente ha ormai paura a pronunciare: Pace.
Links aggiuntivi:
1. Wikipedia: accordi di Oslo
Devo questa pagina a Fabrizio, che evidentemente ha messo piede nel territorio che descrive così bene che quasi quasi anche io mi ci ritrovo. Ne riporto integralmente il testo che mi serve come base per uno studio da scrivania. I links sono miei. Anche le immagini sono da me aggiunte tratta qua e là. Grazie, a Fabrizio.
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1.
La Striscia di Gaza, una discesa agli inferi
di Fabrizio
La Striscia di Gaza è un posto strano. Ci vivono un milione e duecentomila palestinesi, ma il 42% del territorio rimane sotto controllo militare israeliano. Percorrerla per tutta la sua lunghezza trasforma il tuo naturale senso delle distanze, dove 42 chilometri non sono molti da percorrere in una giornata. Qui questo concetto è relativo. Delle volte 42 chilometri possono richiedere poco tempo ma altre volte anche giorni interi. La Striscia è anche una discesa agli inferi. Un inferno il cui primo girone è Gaza City con i suoi due campi profughi super affollati, i suoi murales che trasudano sangue e voglia di vendetta ma anche con la sua società viva, da grande città. E' il girone dove ci sono gli uffici delle organizzazioni non governative, il quartier generale dell’UNRWA. Ci sono anche le Autorità, le rappresentanze diplomatiche. Ci sono i politici di maggior spicco, e i capi carismatici dei gruppi terroristici come ad esempio lo sceicco Yassin, il capo di Hamas. A Gaza city c'è anche il mare al quale i pescatori locali, con pochi mezzi, cercano di strappare poco pesce che magari va sulla tavola dei ristoranti che servono i pochi ricchi. E' il posto dove la maggior parte delle delegazioni straniere si ferma perché non è detto che ci sia il tempo di percorrere i 42 chilometri della Striscia in una sola giornata.
Nella “città” ci sono anche le più grandi e importanti università. Quando si decide, poi, di andare a sud e proseguire il viaggio nel secondo girone; il percorso è scontato e stabilito dalle torrette israeliane e dagli accordi stipulati in un periodo in cui sperare nel futuro era consentito. Il secondo girone è formato da due villaggi moderni che si guardano e dalla confusione architettonica dei campo profughi. Il primo villaggio si può vedere solo da lontano, è circondato da una vasta area resa incolta dall’imposizione militare il cui braccio è un gregge di bulldozer super corazzati. Questo villaggio si chiama Netzarim ed è uno dei 18 insediamenti israeliani della Striscia. Di Netzarim si vedono le torri di difesa, il verde, dato dallo sfruttamento dell'acqua che viene usata senza limitazione per irrigare le coltivazioni, il consumo pro capita d'acqua per i coloni della Striscia di Gaza, infatti, è di 1.000 metri cubi, contro i 172 palestinesi. Un’altra cosa che si nota sono i tetti rossi delle case abitate dai coloni israeliani a partire dal 1972.
Quasi di fronte, separati da un deserto artificiale c’è la cittadina di Zhara, che significa rosa, costruita con moderni palazzi circa otto anni fa per accogliere le persone che, tornate dall’esilio, hanno formato la nervatura centrale dell’Autorità Nazionale Palestinese, ma, purtroppo, si sono portate dietro anche malcostumi quali corruzione e cattiva amministrazione. Zhara paga la sua vicinanza con Netzarim proprio nel suo palazzo più alto che guarda la spianata prospiciente l’insediamento e che ha le ferite tipiche dei colpi di cannone e di arma da fuoco che hanno aperto finestre più ampie di quelle previste dall’architetto. Il mare di fronte a Netzarim guarda la strada che ogni giorno porta migliaia di mezzi fra cui taxi, autobus, camion, auto private e carretti trascinati da asini da nord a sud e da sud a nord, dove il concetto di sud è dato dalla chiusura o meno del check point o dalla presenza dell'IDF. Già i bulldozer israeliani hanno ferito questa strada con incisioni che ne hanno asportato l’asfalto per alcuni tratti e hanno desertificato tutto quello che sorgeva ai suoi lati. Questo pezzo di strada e di spiaggia cade formalmente sotto amministrazione civile militare israeliana anche secondo gli accordi di Oslo e pare che proprio arrogando questa autorità, le forze di sicurezza israeliane, costruiranno l’ennesimo check point che formalmente avrà lo scopo di dare più sicurezza ai 220 abitanti dell’insediamento ma come risultato pratico avrà quello di intralciare ulteriormente il traffico palestinese.
Scorrendo sulla strada e lasciata alle spalle la vista di Netzarim e Zhara e dopo aver visto in lontananza i campi rifugiati dell’area centrale si fa una svolta di novanta gradi e lasciando la vista del mare si entra nel villaggio di Dheir El Balah che prende il suo nome dai datteri che qui crescono in abbondanza sulle palme risparmiate dai voraci bulldozer israeliani. Qui sono molti i volti che guardano da cartelli dipinti a mano e che rappresentano giovani combattenti morti in scontri a fuoco con gli israeliani o magari facendosi saltare in qualche posto in Israele spargendo l'ennesimo sangue innocente di questa guerra che non è guerra. I volti sono fieri, sono già icone di se stessi e non c'è traccia della smorfia di dolore o di paura che sicuramente ha solcato i loro volti al momento della morte. La mano che traccia questi volti è la mano di un pittore "semplice e popolare" e nel loro realismo questi dipinti mi ricordano gli ex voto appesi nei nostri santuari. Per me, quando ci passo attraverso, Dheir El Balah diventa il posto in cui si prende fiato prima di entrare nei gironi del sud, più faticosi da vivere e da vedere oppure il posto dove, andando verso nord, un certo sollievo ti assale rivedendo il mare. Dheir El Balah oltre a essere il posto dei datteri e dei dipinti è anche un campo profughi che ospita le persone fuggite dal neonato stato di Israele nel '48, lo si capisce dalle scuole che portano le insegne dell'UNRWA e la bandiera delle Nazioni Unite.
Passato questo villaggio si viene proiettati in un altro deserto che preannuncia il chek point di Abu Holi. Il check point è un tratto di strada di poco più di un chilometro che ha ai suoi estremi due torrette militari. In realtà Abu Holi è un piccolo incrocio molto militarizzato. Le due strade che si incrociano sono quella palestinese e quella dei coloni israeliani, che arriva da Israele e dall’insediamento di Kfar Darom (costruito negli anni ’70 con 200 abitanti), per entrare nel blocco di Katif (Gush Katif) che occupa tutta l’area costiera nelle municipalità di Khan Younis e Rafah, negando, negli ultimi due anni, l’accesso al mare ai palestinesi. La strada di Abu Holi è divisa in due da un muro, da una parte passano gli israeliani e dall’altra i palestinesi. Il passaggio attraverso questo check point non è sempre scontato, molte volte senza un motivo le forze di sicurezza israeliane chiudono e allora si formano code e ingorghi chilometrici tutto in nome della sicurezza di Israele.
Quando si formano le code e il check point è chiuso non sono i “terroristi” a rimetterci ma bensì gli studenti, i lavoratori, i piccoli e grandi commercianti o chi più semplicemente vuole andare a vedere il mare. La coda si trasforma in un piccolo mondo pronto subito a scomparire al via dato dai soldati chiusi dentro la torretta. Ci sono una miriade venditori di generi di primo conforto, capannelli di persone che parlano di tutto, poi ci sono i ragazzini pronti a fare da numero sulle rare macchine private che viaggiano con un solo passeggero. Attraverso Abu Holi, infatti, è vietato passare da soli su di una macchina, i soldati temono attacchi suicidi. Una volta proiettati fuori da questo budello stradale fra due torrette, io mi sento un po’ a casa, siamo infatti a Qararah che è la nostra casa da almeno cinque mesi.
Anche Qararah ha un posto nella rassegna delle disgrazie della Striscia, è incastrato a nord dalla strada dei coloni, chiamata Kussufim Street, a ovest, dal blocco di Katif e a est dal confine con Israele dove per tutta la sua lunghezza si estende una fascia di sicurezza di circa 500 m non coltivabile. L’unica via d’uscita è verso sud in direzione della città di Khan Younis. Per “motivi di sicurezza” 47 case sono state abbattute negli ultimi due anni; sorgevano troppo vicine alla Kussufim Street e per lo stesso motivo tutte le parti del villaggio che sorgono nelle vicinanze della strada e dell’insediamento sono sotto coprifuoco dal tramonto all’alba. Khan Younis è una città disordinata che ha molte ferite date dalla vicinanza con le difese israeliane. Il campo profughi della città ha una strada ampia che lo attraversa e che in passato andava diretta al mare, ora si ferma di fronte ad una sbarra gialla che segna l’inizio del “regno di Katif” dove ci abitano circa 4400 coloni dei 5940 di tutta la Striscia (dati agosto '99).
Il campo e la zona sono dette Tufah (mela) e le case che hanno la vista al mare e al muro che protegge l’insediamento sono “mangiate” dalle armi automatiche che a volte rispondono a provocazioni palestinesi ma molte volte sparano fuoco senza motivo solo per paura e per far paura. Anche qui ci sono circa settanta case che non esistono più. Le torrette sono molte e i soldati sono puntini invisibili in lontananza. Sono a guardia di questa porta che permette, sfiorando gli insediamenti israeliani, di entrare nei villaggi che formano la zona detta Mawasi, la casa di circa 4500 palestinesi. La vita di questa gente è una vita dove, il poter rientrare a casa la sera oppure aspettare anche giorni davanti ad una sbarra gialla, dipende da una carta magnetica in cui il nome diventa un codice a barre, da ordini militari o semplicemente dall’umore dei soldati che sono di guardia. Spesso aspettiamo assieme a loro anche se non capiscono le nostre flebili parole di conforto espresse in una lingua straniera. Spesso ci si sente impotenti. Un altro posto dove l’impotenza ti stringe lo stomaco, a Khan Younis, assomiglia ai palazzoni della Sarajevo assediata. Namsawi, infatti, guarda le torrette che difendono il blocco di Katif ed è un quartiere di case popolari costruito con i soldi degli aiuti austriaci ma che si è venuto a trovare in un posto di scontro.
Anche qui la rabbia delle armi ha in parte modificato i disegni degli architetti. Namsawi è il posto dove arrivano quelli che hanno già perso la loro casa, chi ha Rafah, chi a Tufah e qualcuno anche a Qararah. Gli appartamenti abitati sono ormai solo quelli che stanno dalla parte opposta rispetto alle torrette israeliane e le storie che si sentono raccontare sono quelle della rabbia di chi si rende conto di vivere sotto tiro. Mohamed di dodici anni abita a Namsawi, qualche mese fa un proiettile si è conficcato nella sua giovane gamba e da lì, i pochi chirurghi della Striscia, non riescono ad estrarla. Mohamed si muove a fatica e per questo non va più a scuola, sua madre soffre di problemi psicologici da quando, l'anno scorso una granata è entrata nel loro appartamento attraverso una finestra; suo padre è disoccupato, tutti dormono assieme nella stanza più riparata dell'appartamento e i suoi molti fratelli piangono la notte quando sentono sparare. La famiglia di Mohamed è originaria di Rafah da dove è partita circa un anno e mezzo fa dopo che la loro casa è stata abbattuta per "motivi di sicurezza". Molte famiglie, più di duecento, hanno perso la loro casa a Rafah negli ultimi due anni. Rafah è l'ultimo e peggiore girone dell'inferno chiamato Striscia di Gaza. Per arrivare alla cittadina che sorge a vicino al confine egiziano non si corre sulla strada principale, quella è chiusa da anni perché passa attraverso all'insediamento di Morag (costruito nel '72 con 150 abitanti), si percorre, infatti, una strada che aggira l'ostacolo e che lambisce l'aeroporto internazionale di Gaza, costruito con fondi UE, amputato della sua pista e del radar dagli aerei e dai buldozer israeliani circa due anni fa. Rafah è una città ferita dai buldozer che hanno trasformato molte case, che sorgevano a ridosso del confine con l'Egitto, in sabbia. Qui lo scontro è forte, gli israeliani tengono il controllo della frontiera dove tutti i giorni centinaia di persone si accalcano per uscire dalla prigione che ormai è diventata la Striscia di Gaza. I poliziotti palestinesi di frontiera fanno poco più che i portinai e il passaggio è deciso sempre dall'ufficiale israeliano. Le frontiere sono sotto controllo israeliano secondo gli accordi di Oslo anche se quest'anno avrebbero dovuto passare direttamente sotto il totale controllo dell'Autorità Nazionale Palestinese. A Rafah sono molte le spie e gli informatori israeliani e anche i gruppi palestinesi armati sono molto attivi. Abitare a Rafah nei quartieri vicino alla frontiera significa anche alzarsi nel cuore della notte con i soldati che ti intimano lo sgombero lasciandoti solo poche ore per prendere la tua vita ed andartene. Poi dopo qualche tempo faticherai anche a capire dove sorgeva la tua casa. La vita a Rafah vale poco, ne è la prova il fatto avvenuto il 17 ottobre scorso, quando un tank israeliano, in pieno giorno, in risposta ad una presunta provocazione palestinese ha sparato almeno tre colpi di cannone sul quartiere detto "blocco O" uccidendo sette civili e ferendone almeno settanta. Tra le vittime non c'erano terroristi ma c'era Shatma, di otto anni, che dormiva nel suo letto. A Rafah ci sono i tunnel e anche questo ricorda la Sarajevo assediata. Anche qui come a Sarajevo dal tunnel passano armi, qui vanno a finire nelle mani dei gruppi armati che stupidamente e con la disperazione negli occhi cercano di fare guerra contro gli israeliani in una maniera che non potrà mai portare la libertà a questo popolo sofferente. Sono ormai arrivato al quarantaduesimo chilometro e l'angoscia mi stringe la gola, ma non c'è solo disperazione in questo grande ghetto che si chiama Striscia di Gaza. La speranza vuole dire il sorriso dei bambini, il volto riconoscente di una donna che vive in tenda dopo l'abbattimento della sua casa e che ti ringrazia perché tu le sei amico e che ti invita a cena anche se è poco il cibo che ha a disposizione. La speranza è un gruppo di persone che pensa che ci sia un modo diverso dall'andare in Israele ed usare il proprio corpo come bomba per opporsi a questa ingiustizia quotidiana. Questa gente lavora con la società civile e con i bambini. C'è chi, come Hussam, dirige un centro per aiutare i bambini con problemi di apprendimento e che crede che insegnare loro che hanno dei diritti e che c'è una seconda via sia la strada per portarli lontano dai gruppi fondamentalisti che predicano l'odio. La speranza c'è in chi si sforza di non odiare anche se tutti i giorni vede di Israele solo la faccia violenta e coloniale. La speranza è una parola che qui in Medio Oriente la gente ha ormai paura a pronunciare: Pace.
Links aggiuntivi:
1. Wikipedia: accordi di Oslo
2.
L'uso selettivo della lingua da parte dei media e la censura per omissione del giornalismo occidentale coprono la scientifica violenza israeliana Gaza deve (dovrebbe) essere mostrata per quello che è: un laboratorio israeliano, sostenuto dalla comunità internazionale, dove gli essere umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più perverse di soffocamento economico e riduzione alla fame.
Si sta consentendo a Israele di distruggere la nozione stessa di Stato palestinese e di tenere prigioniera un'intera nazione. Questo appare in modo evidente dagli ultimi attacchi su Gaza, la cui sofferenza è diventata una metafora della tragedia imposta ai popoli in Medio Oriente ed oltre. Secondo il notiziario britannico Channel 4 News, questi attacchi «erano mirati contro importanti militanti di Hamas» e contro «l'infrastruttura di Hamas». La Bbc ha parlato di uno «scontro» tra gli stessi militanti e gli F-16 israeliani.
Consideriamo uno di questi scontri. L’automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell’anno scorso in Palestina. Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell’automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.
«Secondo alcuni», ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo ...». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall’interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c’è nessuna guerra. C’è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza \. Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappe, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».
Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un'Olp forte e laica utilizzando un'alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall'Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.
Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l'accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l'Iraq di oggi...».
Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l'acqua e l'aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare... La striscia di Gaza deve \ essere mostrata per ciò che è... un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».
Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza... Ombre di esseri umani vagano tra le rovine... Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.
Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all'Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.
Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l'invasione dell'Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell'università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L'uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.
Ci sono eccezioni lodevoli. L'inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l'Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l'Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c'è stata una risposta soddisfacente.
Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».
L'ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall'interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.
Traduzione Marina Impallomeni
Consideriamo uno di questi scontri. L’automobile dei militanti è stata fatta esplodere da un missile partito da un cacciabombardiere. Chi erano questi militanti? Secondo la mia esperienza, tutti gli abitanti di Gaza sono militanti in quanto resistono al loro carceriere e aguzzino. Quanto alla «infrastruttura di Hamas», si trattava della sede del partito che ha vinto le elezioni democratiche dell’anno scorso in Palestina. Dire questo darebbe una cattiva impressione. Suggerirebbe che le persone a bordo dell’automobile e tutti gli altri nel corso degli anni, i bambini e gli anziani che si sono anche loro «scontrati» con i cacciabombardieri, sono stati vittima di una mostruosa ingiustizia. Suggerirebbe la verità.
«Secondo alcuni», ha detto il reporter di Channel 4, «Hamas ha sollecitato questo ...». Forse si riferiva ai razzi sparati contro Israele dall’interno della prigione di Gaza, che non hanno ucciso nessuno. Secondo il diritto internazionale, una popolazione occupata ha il diritto di usare le armi contro le forze di occupazione, ma questo diritto non viene mai citato. Il giornalista di Channel 4 ha fatto riferimento a una «guerra infinita». Non c’è nessuna guerra. C’è la resistenza della popolazione più povera, più vulnerabile sulla terra a una perdurante occupazione illegale imposta dalla quarta più grande potenza militare al mondo, le cui armi di distruzione di massa vanno dalle bombe cluster ai congegni termonucleari, pagate dalla superpotenza \. Soltanto negli ultimi sei anni, ha scritto lo storico Ilan Pappe, «le forze israeliane hanno ucciso più di 4.000 palestinesi, la metà dei quali bambini».
Consideriamo come funziona questa potenza. Secondo i documenti ottenuti da United Press International, una volta gli israeliani finanziavano segretamente Hamas come «tentativo diretto di dividere e annacquare il consenso a un'Olp forte e laica utilizzando un'alternativa religiosa rivale», come ha detto un ex funzionario della Cia.
Oggi Israele e gli Usa hanno capovolto il loro intervento e sostengono apertamente il rivale di Hamas, Fatah, con mazzette di milioni di dollari. Di recente Israele ha segretamente autorizzato 500 combattenti di Fatah a entrare a Gaza dall'Egitto, dove erano stati addestrati da un altro protetto degli americani, la dittatura del Cairo. Scopo di Israele è indebolire il governo palestinese eletto e fomentare una guerra civile. Per tutta risposta, i palestinesi hanno creato un governo di unità nazionale, con Hamas e Fatah. È questo che gli ultimi attacchi mirano a distruggere.
Con Gaza rinchiusa nel caos e la Cisgiordania cinta da un muro, il piano israeliano, ha scritto l'accademica palestinese Karma Nabulsi, è «una visione hobbesiana di una società anarchica: monca, violenta, impotente, distrutta, intimidita, governata da milizie, bande, estremisti e ideologi religiosi i più disparati, divisa dal tribalismo etnico e religioso e dai collaborazionisti cooptati. Guardate l'Iraq di oggi...».
Il 19 maggio, il Guardian ha ricevuto questa lettera da Omar Jabary al-Sarafeh, un abitante di Ramallah. «La terra, l'acqua e l'aria sono sotto costante osservazione da parte di un sofisticato sistema di sorveglianza militare... La striscia di Gaza deve \ essere mostrata per ciò che è... un laboratorio israeliano sostenuto dalla comunità internazionale dove gli esseri umani vengono usati come conigli per testare le pratiche più drammatiche e perverse di soffocamento economico e di riduzione alla fame».
Il giornalista israeliano Gideon Levy ha descritto la fame che colpisce gli abitanti di Gaza, più di un milione e 250 mila persone, e le «migliaia di persone ferite, rese disabili e scioccate dalle bombe, che non possono ricevere alcuna assistenza... Ombre di esseri umani vagano tra le rovine... Sanno solo che tornerà, e sanno cosa significherà questo per loro: più prigionia nelle loro case per settimane, più morte e distruzione in proporzioni mostruose».
Ogni volta che sono stato a Gaza, sono stato consumato da questa malinconia, come se fossi penetrato in un segreto luogo di cordoglio. Le scritte sui muri forati dai proiettili commemorano i morti, come la famiglia di 18 uomini, donne e bambini che «si sono scontrati» con una bomba israelo-americana da 500 libbre, lanciata sulla loro casa mentre dormivano. Militanti, si presume.
Più del 40% della popolazione di Gaza è formato da bambini sotto i 15 anni. Dando conto di uno studio sul campo per il British Medical Journal effettuato per 4 anni nella Palestina occupata, il dottor Derek Summerfield ha scritto che «due terzi dei 621 bambini uccisi ai check-point, per strada, mentre andavano a scuola, nelle loro case, sono morti per piccole armi da fuoco che li hanno colpiti in più della metà dei casi alla testa, al collo e al petto: la ferita del cecchino». Un mio amico che lavora all'Onu li chiama «figli della polvere». La loro stupenda infantilità, la loro chiassosità, le loro risate, il loro incanto, tradiscono il loro incubo.
Ho incontrato il dottor Khalid Dahlan, uno psichiatra che dirige uno di svariati progetti di salute infantile sul territorio a Gaza. Dahlan mi ha parlato della sua ultima ricerca. «La statistica che personalmente trovo insopportabile» ha detto «è che il 99.4% dei bambini che abbiamo preso in esame soffrono per un trauma. Se si guardano i tassi di esposizione al trauma, si capisce il perché: il 99.2% del gruppo di studio ha avuto la casa bombardata; il 97.5% è stato esposto ai gas lacrimogeni; il 96.6% ha assistito a sparatorie; il 95.8% ha assistito a bombardamenti e funerali; quasi un quarto ha visto dei componenti della propria famiglia feriti o morti».
Dahlan spiega che bambini di soli tre anni hanno vissuto la dicotomia causata dal doversi misurare con simili condizioni. Essi sognavano di diventare medici e infermieri, poi tutto questo è stato travolto da una visione apocalittica di se stessi come la prossima generazione di attentatori suicidi. Ciò invariabilmente dopo un attacco israeliano. Per alcuni ragazzini gli eroi non erano più i calciatori, ma una confusione di «martiri» palestinesi e persino il nemico, «perché i soldati israeliani sono i più forti e hanno gli elicotteri Apache».
Poco prima di morire, Edward Said rimproverò amaramente i giornalisti stranieri per quello che giudicava il loro ruolo distruttivo nel «cancellare il contesto della violenza palestinese, la risposta di un popolo disperato e orribilmente oppresso, e la terribile sofferenza da cui essa scaturisce». Proprio come l'invasione dell'Iraq è stata una «guerra di media», altrettanto può dirsi del «conflitto» grottescamente unidirezionale che è in corso in Palestina. Come dimostra il lavoro pionieristico del Media Group dell'università di Glasgow, agli spettatori televisivi viene detto raramente che i palestinesi sono vittima di una occupazione militare illegale; il termine «territori occupati» è spiegato di rado. Solo il 9% dei giovani intervistati nel Regno unito sa che gli israeliani sono la forza di occupazione e i coloni illegali sono gli ebrei; molti credono che siano i palestinesi. L'uso selettivo della lingua da parte delle emittenti radiotelevisive è cruciale nel mantenere questa confusione e ignoranza. Parole come «terrorismo», «omicidio» e «uccisione selvaggia, a sangue freddo» descrivono la morte degli israeliani, quasi mai quella dei palestinesi.
Ci sono eccezioni lodevoli. L'inviato della Bbc rapito, Alan Johnston, è una di esse. Eppure, nella valanga di notizie sul suo rapimento, non si citano mai le migliaia di palestinesi rapiti da Israele, molti dei quali non rivedranno le loro famiglie per anni. Per loro non ci sono appelli. A Gerusalemme, l'Associazione stampa estera documenta come i suoi membri siano sottoposti al fuoco e alle intimidazioni da parte dei soldati israeliani. In un periodo di 8 mesi altrettanti giornalisti, compreso il responsabile della Cnn a Gerusalemme, sono stati feriti dagli israeliani, alcuni di loro gravemente. In ciascun caso l'Associazione stampa estera ha protestato. In ciascun caso, non c'è stata una risposta soddisfacente.
Una censura per omissione attraversa profondamente il giornalismo occidentale su Israele, specialmente negli Usa. Hamas è liquidata come «un gruppo terroristico votato alla distruzione di Israele», che «rifiuta di riconoscere Israele e vuole combattere, non dialogare». Questo discorso sopprime la verità: il fatto che Israele sta distruggendo la Palestina. Inoltre le proposte di Hamas, avanzate da tempo, di un «cessate il fuoco» di 10 anni vengono ignorate, insieme a un recente, promettente spostamento ideologico al suo interno, che vede una accettazione storica della sovranità di Israele. «La carta non è il Corano», ha detto uno di Hamas, Mohammed Ghazal. «Storicamente crediamo che tutta la Palestina appartenga ai palestinesi, ma ora stiamo parlando della realtà, delle soluzioni politiche».
L'ultima volta che ho visto Gaza, mentre mi recavo in auto verso il check-point israeliano con il filo spinato, ho potuto assistere allo spettacolo di bandiere palestinesi che sventolavano dall'interno dei compound recintati. Erano stati i bambini, mi spiegavano. Fabbricano le aste con delle bacchette legate insieme, e uno o due di loro si arrampicano in cima a un muro tenendo la bandiera in silenzio. Lo fanno quando ci sono degli stranieri in giro, e pensano che potranno dirlo al mondo.
Traduzione Marina Impallomeni
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