giugno 07, 2007

La guerra dei sei giorni

Avevo diciassette anni e facevo il liceo a Roma, quando sui giornali veniva data la notizia della fulminea guerra di Moshé Dayan, il generale con l’occhio bendato. Anche nella mia insegnante di storia ricordo una sorta di ammirazione per la bravura degli israeliani. Io era ancora troppo giovane per interessarmi o appassionarmi ad un evento per me lontano e fondamentalmente estraneo. Adesso mi rendo conto che quello fu un evento centrale della storia contemporanea, che adesso tento qui di studiare sulla base di una documentazione che attingo qua e la dalla rete. Segue per primo un link dall’Unità con un articolo che ripreso dall’agenzia filoisareliana “Informazione Corretta” supera il mio vaglio critico proprio per il fatto di non essere apprezzato dai Corretti Informatori, che non possono prendersela con l’Unità più di tanto. Ùn’idea mi sembra importante nell’articolo. È vero fu una vittoria per gli israeliani ed una cocente sconfitta per gli arabi. A quella guerra però non è mai seguita una pace ed è questo il suo limite. Anche se non sempre combattuta, è come se quella guerra non fosse mai cessata. Gli arabi, in apparenza deboli e sconfitti, sono in realtà forti perché non hanno mai deposto la loro “ostilità” e mai si sono arresi. Contro un nemico del genere non si può vincere. I più grandi politici della storia sono quelli che hanno saputo costruire la pace più che vincere una guerra.

Link di approfondimento e documentazione:

1. Rachele Gonnelli: La pace che non ci fu e un documento segreto. Qualche estratto di un articolo interessante nella sua interezza: «Fu una vittoria, uno straordinario successo militare ma non portò nessuna pace. E questo ha generato, sedimentato delusione anche nei vincitori. Lo testimoniano le analisi demografiche. Ci fu, sull'onda dell'entusiasmo della vittoria, una forte immigrazione ebraica dagli Stati Uniti (da 700 a circa 7-8mila, la più forte ondata migratoria prima di quella dall'est europeo dopo la caduta del muro di Berlino). Un'immigrazione di qualità- come si dice oggi - scienziati, intellettuali, che però nel giro di pochi anni (nel 58 percento dei casi secondo gli studi di Sergio Della Pergola ) fecero ritorno nei paesi d'origine perché delusi dalle condizioni di vita che si trovarono ad affrontare».

2. La guerra dei sei giorni nella memoria rievocativa di Fiamma Nirenstein. Tutto ciò che scrive Fiamma Nirenstein è significativo per il suo alto grado di faziosità e partigianeria. A suo modo ciò che dice ha un valore documentario, ma di una sorta di patologia politica. Era in costume da bagno. Che spettacolo!

TESTI

1.
Tom Segev intervistato sulla “Guerra dei sei giorni”

Ne prendo il testo da Informazione Corretta, che ne da una valutazione ed interpretazione negativa. Buon segno per Segev, di cui sto leggendo “Il Settimo Milione”, volume che avevo in casa e non avevo finora letto, capitato nella mia biblioteca piuttosto per caso. Leggo nella fascetta editoriale che lo stesso Segev è autore di un controverso libro sulla fondazione dello Stato di Israele. Nel “Settimo Milione” l’argomento è sfiorato, almeno nella parte che ne ho finora letto. Sarà interessante dello stesso autore leggere uno specifico libro sulla fondazione dello Stato ebraico. Dalle letture finora fatte mi sembra ognor più evidente la connessione fra Olocausto, fondazione dello stato d’Israele, guerra in Medio Oriente, sua colonizzazione, interessi startegici degli USA, necessitò di una mortificazione continua dell’Europa con infiniti giornate e musei della memoria, carcere duro per quegli storici che rompono le uova nel paniere.

BEIRUT — «Sarebbe stato meglio non farla. La Guerra dei Sei Giorni per Israele è stata deleteria e le conseguenze le stiamo pagando tutt’ora. Quarant'anni fa, alla vigilia dell’attacco del 5 giugno 1967, sbagliammo nel lasciarci accecare dal panico della sopravvalutazione della minaccia araba. Poi, il settimo giorno, sbagliammo ancora nel farci travolgere dall’euforia della vittoria. I fatti hanno dimostrato che invece non c’era un bel niente da festeggiare: era l’inizio dell’occupazione delle terre arabe, con il suo bagaglio di immoralità, corruzione, ingiustizie, che hanno creato le condizioni per la violenza, le tragedie, il terrorismo, persino le guerre degli anni seguenti».


È dominato da un diffuso senso di pessimismo il bilancio che Tom Segev traccia nel suo «1967: Israele, la guerra e l’anno che trasformò il Medio Oriente». Un volume pubblicato in ebraico già due anni fa, ma la cui edizione inglese appare proprio ora in concomitanza al quarantesimo di quello che lui definisce «l’anno più lungo della storia contemporanea», e che resta oggetto di accese polemiche. 
Giornalista per il quotidiano israeliano Haaretz, 
commentatore, autore di numerosi libri controversi, Segev ce ne parla per telefono dagli Stati Uniti, dove sta tra l’altro preparando una biografia su Simon Wiesenthal, il celebre «cacciatore di nazisti» scomparso due anni fa.


Dunque la Guerra dei Sei Giorni fu un errore? 
«Avremmo dovuto far di tutto per evitarla. Però mi sembra che con gli egiziani il conflitto fosse inevitabile. Non tanto per causa loro, quanto per colpa nostra. La società israeliana di quel tempo era profondamente insicura, ansiosa, spaventata, ci si aspettava un secondo Olocausto. Come ho appena scritto anche sul New York Times, il terrore di essere totalmente annullati dall’esercito di Nasser spinse i dirigenti israeliani a ragionare con le emozioni, con il cuore, e non con il cervello». 
Dove allora si poteva evitare la guerra? 
«Rinunciando ad attaccare Giordania e Siria. Non dovevamo prendere Gerusalemme Est, né tanto meno la Cisgiordania con i suoi due milioni di abitanti palestinesi. Quanto alle alture del Golan, il conflitto del 1973 ha poi dimostrato che dal punto di vista strategico sono del tutto inutili». 
Però re Hussein di Giordania già il primo giorno dei combattimenti sul fronte egiziano ordinò alle sue artiglierie di sparare sulla parte israeliana di Gerusalemme, anche se poco prima lo stesso Moshe Dayan lo aveva invitato a restare fuori dal conflitto. 
«Dovette farlo, per non essere messo al bando dal mondo arabo. Israele per punirlo poteva distruggere il suo esercito, addirittura catturarlo, umiliarlo come gli americani hanno fatto con Saddam Hussein. Ma l’occupazione della Cisgiordania ha avuto un effetto boomerang gravissimo per noi. E prendemmo Gerusalemme, con i massimi luoghi santi cristiani e musulmani, senza neppure consultare un esperto di diritto internazionale. Ci ritrovammo a dover gestire una situazione per cui assolutamente non eravamo preparati». 
Le critiche contro di lei abbondano.

Tra i tanti, lo storico israeliano Benny Morris l’ha accusata di aver trasformato quella guerra in una «rappresentazione farsa», specie non tenendo conto delle intenzioni arabe e della realtà politica e militare del tempo. 
«Altri storici hanno studiato le vicende politiche e militari della guerra del 1967, non è difficile inquadrarla nel contesto della Guerra Fredda. Nessuno invece ha accesso diretto alle fonti arabe per quel periodo. Gli archivi sono totalmente chiusi. Qualcuno ha utilizzato i diari di alcuni generali egiziani, che hanno inevitabilmente un valore molto limitato. Ho invece preferito concentrarmi sulla società israeliana e sulla percezione che aveva allora della minaccia araba. In verità nessuno di noi sa bene cosa volesse Nasser ordinando alle sue truppe di entrare nel Sinai. Intendeva davvero distruggere Israele? No lo so. Posso però dire che i dirigenti israeliani erano certi dell’approssimarsi di un secondo Olocausto, paragonavano Nasser a Hitler». 
Questa «sindrome dell’Olocausto» è ancora presente oggi? 
«Assolutamente sì, fa parte integrante della nostra identità nazionale. Basti vedere come in Israele si prendono sul serio e alla lettera le minacce che arrivano dall’Iran. In alcuni casi è pura strumentalizzazione politica, in altri si tratta di un sentimento genuino».


Allora Fatah aveva cominciato le azioni di guerriglia da un paio d’anni, e negli ultimi mesi le aveva intensificate. Non avvalora le tesi di Benny Morris il fatto che gli attentati dei palestinesi fossero in crescita ancora prima dell’occupazione di Cisgiordania e Gaza? 
«Si affacciava alla storia una nuova generazione di palestinesi nati dopo la guerra del 1948. Gente che aveva visto le sofferenze dei padri, vissuto l’umiliazione di essere profughi, visto i nuovi profughi del 1967, circa 250 mila. Israele pensò di poterli battere con l’esercito. Ma tutta la storia dal 1967 insegna che le misure militari servono a poco contro guerriglia e terrorismo». 
Nel suo libro sottolinea lo scontro tra i generali sabra, i «nuovi ebrei» nati in Israele, con il loro ethos guerriero e decisionista incarnato dall’allora capo di Stato maggiore Yitzhak Rabin, e i politici titubanti, indecisi, ancora legati al mondo ebraico della diaspora, quale era il premier Levi Eshkol. Una dicotomia ancora attuale? 
«No. Oggi politici e militari appartengono ormai alla stessa generazione diventata adulta dopo quella guerra. L’attuale premier Ehud Olmert nel 1967 aveva 23 anni, stava entrando alla Knesset. Lui e gli altri leader israeliani di oggi sono tutti infinitamente più cinici, individualisti. Il loro fine è il puro mantenimento del potere, a qualsiasi prezzo. Si comportano normalmente, come se fossero nel parlamento italiano, dimenticando però che qui i problemi sono davvero eccezionali. Basti vedere come Olmert resti al suo posto, nonostante tutte le accuse che gli sono rivolte per gli errori commessi durante la campagna militare in Libano dell’anno scorso. Un qualsiasi dirigente della generazione che guidò la guerra del 1967 nei suoi panni si sarebbe già dimesso da un pezzo».



1 commento:

arial ha detto...

Interessante articolo su Haaretz sui diari di Tom Segev
http://oknotizie.alice.it/go.php?us=40811051d96b22d0