novembre 05, 2010

La questione sionista ed il Vicino Oriente – Tratte da “Oriente Moderno” cronache dell’anno 1921. § 45a: Il XII Congresso Sionista di Carlsbad.

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La lettura di «Oriente Moderno», anno 1921, secondo semestre, offre una sobria e rigorosa rassegna stampa delle notizie sulla Palestina, il Vicino Oriente e l’affermarsi del sionismo. È qui possibile una duplice modalità di lettura: in verticale (↑↓), a papiro, in un singolo post, di tutto e del solo testo originale dei fascicoli mensili, dove diviso per capitoli (cap., c.) e annate con qualche illustrazione grafica si affianca qui una diversa lettura in modalità orizzontale (← →), a libro, di ogni singolo paragrafo (§), dove è possibile un commento critico con webgrafia, note, iconografia e ogni utile integrazione. Il Lettore che desidera leggere i testi senza nessuna mediazione del Curatore può spostarsi sulla lettura verticale, a papiro, con un semplice clic sul numero del Cap., mentre chi vuole un’analisi e discussione dei testi ovvero avvalersi degli apparati forniti dal Curatore ovvero partecipare al Forum, può trovare maggiore interesse in un diverso editing dello stesso testo. Si spera che la segnaletica approntata e le numerose pagine di raccordo agevolino la navigazione in un ipertesto di dimensioni enciclopediche.


§ 45a

c. 45a §§ 44a46a

Il XII Congresso Sionista di Carlsbad

da: Oriente Moderno,
Anno I, Nr. 6, p. 350-356
15 novembre 1921.

Il Congresso sionistico di Carlsbad, (1) riunitosi dopo otto anni di interruzione, aveva sostanzialmente i seguenti compiti da assolvere: ricostruire il meccanismo dell’organizzazione superato dagli avvenimenti e dall’incremento politico del sionismo, e danneggiato dalla guerra; tracciare il piano finanziario, trovare cioè i mezzi corrispondenti alle possibilità di realizzazione offerte al sionismo dal consenso delle grandi Potenze per ricostruire in Palestina il centro nazionale ebraico; elaborare il piano economico di cotesta ricostruzione; prendere posizione di fronte agli avvenimenti più importanti della vita ebraica accaduti nel periodo della guerra e del dopo guerra; elaborare le direttive politiche dell’organizzazione sionista dinanzi alla situazione, fattasi molto più complicata di prima, del vicino Oriente. Non tutti questi compiti sono stati assolti dal Congresso con eguale chiarezza e pienezza; cosa che si spiega colla grandezza del problema considerato nel suo complesso. Molto però si è fatto al congresso stesso; fra l’altro furono gettate le basi e le linee direttive entro le quali svolgerà la sua opera il nuovo Esecutivo sionistico.

Al Congresso erano rappresentati circa 800.000 Ebrei; sicché l’organizzazione sionistica appare come il partito più forte dell’ebraismo ed è tale che se non raccoglie nelle sue fila organizzate la maggioranza del popolo ebraico, la tiene senza dubbio sotto la sua influenza. I 542 delegati presenti si dividevano, secondo i singoli paesi, nel modo seguente: 65 di Polonia, 42 di America, 40 di Russia ed Ucraina, 38 di Galizia, 21 di Palestina, 16 di Rumenia e Transilvania, 11 di Germania, 10 di Austria; il resto era diviso fra i paesi con nuclei ebraici poco numerosi: Inghilterra con 7 delegati, Belgio con 3, Italia con 2, Francia con l, ecc. Questa divisione si riferisce però solo ai cosi detti «Sionisti in generale», cioè Sionisti senza alcuna spiccata tendenza politica o sociale, i quali si sono uniti al congresso nel «blocco medio borghese»; mentre i partiti propriamente detti del sionismo, composti quasi esclusivamente degli Ebrei dell’Europa orientale e dell’America, erano distinti nel modo seguente: la frazione misrachi (cioè Ebrei religiosi che chiedono nella ricostruzione palestinese l’ applicazione degli ordnamenti delb Legge) con 97 delegati ; la frazione hapoel hazair (socialisti moderati) 26 delegati, le frazioni poalé zion e zeire zion (socialisti di sinistra) 42 delegati.

Il primo compito a cui il Congresso si apprestò, e che fu risolto in modo soddisfacente, fu quello dell’organizzazione. Il vecchio meccanismo si era manifestato poco elastico ed aveva inoltre il difetto di lasciare eccessiva libertà all’Esecutivo che, una volta eletto dal Congresso, poteva agire quasi senza controllo. Il nuovo meccanismo, quale è stato elaborato dal Congresso, consta del Congresso che si raccoglie ogni due anni ed è eletto da tutti i pagatori dello scekel (tessera dell’organizzazione sionistica) sulla base del diritto eguale, proporzionale, diretto, senza esclusione delle donne, ecc.; dal Consiglio centrale che viene convocato a seduta annua ed è eletto dalle Federazioni territoriali in base ad un delegato su ogni 2.000 pagatori di scekel; dal Comitato d’Azione composto di 25 membri, eletti dal Congresso, che si raccoglie ogni tre mesi e dinanzi a cui l’Esecutivo è responsabile, sicchè i membri dell’Esecutivo che non godono la fiducia del C. d’A. devono dimettersi dalla carica, avendo però il diritto di appellarsi al Congresso; dall’Esecutivo composto di 13 membri, di cui 7 stanno a Londra e 6 in Palestina. Accanto a questi organi direttivi ed esecutivi è stato pure formato un Consiglio finanziario ed economico, composto di 7 membri ed avente il compito di elaborare ed esaminare i piani ed i progetti dell’azione economica in Palestina. Il congresso ha eletto il Comitato d’Azione alla cui presidenza è stato chiamato il rabb. magg. di Vienna, dott. Chajes, illustre scienziato dell’ebraismo; il Consiglio economico e l’Esecutivo, composto di Chaim Weizmann, presidente dell’organizzazione sionistica, Nahum Sokolow, presidente dell’Esecutivo, Lichtheim, Jabotinsky, Motzkin (finora segretario generale del Comité des Délégations juives, che raccoglie i rappresentanti dei vari nuclei ebraici della diaspora), Soloveicik (finora Ministro degli Affari ebraici nella Lituania), Cowen (questi sette con sede a Londra) e poi Ussishkin, Eder, Rosenblatt, Ruppin, Sprinzak con sede in Palestina. In questo Esecutivo sono rappresentate le frazioni dei misrachi e dei socialisti moderati; i socialisti di sinistra hanno declinato l’offerta fatta loro d’inviare il loro rappresentante nell’Esecutivo.

Nella sfera dell’organizzazione rientra anche il Fondo di Ricostruzione (Keren Hajesod) che lavorerà in istretto contatto con l’organizzazione sionistica, ma costituirà un ente a sè, a somiglianza del Fondo Nazionale Ebraico e della Banca Palestinese. Il Consiglio del F. d. R. sarà composto per metà dai rappresentanti della organizzazione sionistica, per metà dagli eletti dei contribuenti al Fondo. Ammettendo questi ultimi, l’organizzazione fa entrare per la prima volta nei suoi istituti i non-sionisti. In tal modo è aperta la via a tutti coloro che desiderino collaborare alla ricostruzione palestinese senza che essi debbano perciò assumere la responsabilità di tutto quello che il sionismo fa in altri campi della vita ebraica e senza che partecipino necessariamente alle idealità nazionali cui s’ispira il sionismo. Ciò sta in rapporto coll’enorme lavoro che l’organizzazione vede dinanzi a sè; lavoro che essa sente di non poter adempiere se non mediante lo sforzo concorde di tutto l’ebraismo. Il problema di attrarre all’opera sionistica le forze non-sionistiche è diventato negli ultimi anni uno dei più angosciosi e difficili. Mentre una corrente dell’organizzazione (la cosi detta corrente americana capitanata dal giudice Brandeis) credeva di risolverlo vuotando il sionismo del suo contenuto nazionale e facilitando cosi l’ingresso alle forze ebraiche non-nazionali (le cosi dette assimilatorie), il Congresso ha riconfermato in una serie di risoluzioni il carattere nazionale del sionismo, ma ha creato nel Fondo di Ricostruzione un istituto aperto a tutti gli Ebrei che vogliono prendere parte alla ricostruzione economica della Palestina.

Cotesto Fondo di Ricostruzione deve diventare la fonte massima delle risorse finanziarie del sionismo, lo scekel servendo per i soli bisogni amministrativi dell’organizzazione. Fu confermata come sua base la decima del patrimonio e del reddito, obbligatoria per tutti i Sionisti; sono però invitati a pagarla tutti gli Ebrei. Una parte di questo capitale andrà devoluta a fondo perduto, in opere di carattere nazionale (educazione, scuole, ecc.), l’altra parte sarà investita in opere agricole ed industriali che potranno dare un certo profitto. Per i prossimi cinque anni i sottoscrittori non avranno però alcun diritto ai dividendi, che potranno eventualmente esser distribuiti solo cominciando dall’anno 1927. ln che modo si intenda distribuire il denaro del K. H., (1) si può rilevare dal bilancio dell’organizzazione sionistica presentato per l’anno 5682 (settembre 1921-settembre 1922). Questo bilancio è diviso in tre categorie: per la prima, che comprende le spese ordinarie della Palestina (amministrazione) e gli «investimenti nazionali» (educazione, scuole, biblioteche, igiene pubblica, colonizzazione agricola, fondo per gli immigranti, ecc.) è preventivata la somma di L. sterline 656.000; la seconda categoria abbraccia gli investimenti economici, soprattutto i crediti per la colonizzazione agricola e per le industrie urbane ed i lavori d’irrigazione (L. sterline 550.000); la terza categoria comprende le somme che saranno devolute dal Fondo di Ricostruzione al Fondo Nazionale per l’acquisto di terreni (Lst. 300,000). In complesso il bilancio palestinese ammonta a Lst. 1.506.000, a cui si deve aggiungere ancora il bilancio europeo (organizzazione) di Lst. 34.200.

Questo bilancio dà un’idea del piano di lavoro futuro dell’organizzazione sionistica. I Sionisti non possono sperare che i nuovi immigranti provvedano alla loro esistenza col commercio: la Palestina è un paese essenzialmente agricolo che presenta un grande deficit nel bilancio commerciale (le uscite costituiscono circa il 15% elle entrate), ed i commercianti che già vivono in Palestina sono fin d’ora troppi. Gli immigranti potranno vivere solo se diventeranno i produttori vuoi nell’agricoltura vuoi nell’industria o nei lavori pubblici. L’organizzazione ha finora rivolto la massima attenzione, – e il Congresso ha riconfermato questa tendenza, – all’agricoltura, partendo dal concetto che solo l’acquisto della terra e una solida classe agricola ebrea possono dare stabilità e normale struttura sociale al rinascente centro nazionale ebraico. Quindi: acquisto di terreni, scuole agricole (in Palestina e nei paesi della dispersione), stazioni sperimentali, tentativi di coltura intensiva; istituti di credito agrario e banche ipotecarie; nelle città: costruzione di case, credito, informazioni, appoggio alle imprese industriali, azione per un regime doganale più razionale (oggi in Palestina la dogana preleva su qualunque merce importata l’11% del suo valore), istituti di credito alle cooperative. Fra il Lavoro agricolo e quello industriale l’organizzazione fa una differenza di massima; e mentre si appresta ad accordare larghi crediti all’agricoltura e a devolvere anzi forti somme a fondo perduto per il suo incremento, lascia il campo industriale all’iniziativa privata. La ragione di questa differenza deve ricercarsi così nel carattere nazionale del sionismo (e quindi nella preferenza data all’agricoltura come la base più solida della nazione), come nel fatto che l’appoggio dato finora ai gruppi cooperativi dei contadini ebrei ha dato, in complesso, risultati più che soddisfacenti, sicché si può affermare che la maggior parte del patrimonio agricolo degli Ebrei in Palestina si sviluppa e cresce grazie alle cooperative agricole operaie. La prima base per una colonizzazione agricola più vasta è data dal terreno acquistato l’anno scorso dal Fondo Nazionale (80.000 dunam). Molte speranze ripongono i tecnici nel piano di irrigazione dell’ing. Rutenberg, che deve trarre l’energia idraulica dall’Awgia; anche questi lavori si compiono coi mezzi dell’organizzazione. Col bilancio approvato dal Congresso si spera di poter trasportare nel paese, nei primi anni, circa 30.000 uomini all’anno. Si intende che collo sviluppo della vita industriale le possibilità d’immigrazione aumenteranno continuamente. Va notato che nell’ultimo anno sono immigrati in Palestina solo circa 8 mila uomini e che fra i grandi progressi fatti dall’opera ebraica v’è da registrare solo il già menzionato acquisto del terreno e la fondazione della Banca operaia (con Lst. 50.000 di capitale versato). Tutto questo è senza dubbio inferiore al compito che si è assunta l’organizzazione; e dipende sopra tutto dalla catastrofe economica che si è abbattuta sull’ebraismo dell’Europa orientale e media, tagliandone una parte completamente fuori dall’opera sionistica e diminuendo all’estremo le capacità finanziarie dell’altra parte. Le maggiori speranze sionistiche in senso economico si concentrano quindi sull’ebraismo americano - fino a che sia di nuovo risorto l’ebraismo della Russia del Sud e si rafforzi la situazione finanziaria dell’ebraismo di Polonia.

I problemi dell’organizzazione, della finanza del lavoro economico sono stati discussi in un’atmosfera di calma relativa, ed hanno trovato consenzienti nei principi generali quasi tutti i delegati; qualcuno insisteva sulla necessità di spendere il denaro in modo possibilmente più razionale, coi criteri economici; c’erano d’altra parte i gruppi che accentuavano la necessità di spendere nei primi tempi piuttosto con una certa larghezza. Ma si è trovata facilmente la sintesi delle due correnti; ed anche il principio della decima, che prima del Congresso aveva sollevato nell’opinione pubblica sionista qualche obbiezione, non ha trovato a Carlsbad seri oppositori. Maggiore passionalità produssero i problemi politici.

La stessa corrente capitanata da Brandeis, che domandava un’opera puramente economica, nazionale, in Palestina, non voleva che l’Organizzazione sionistica si occupasse delle questioni politiche ebraiche nelle terre della dispersione. D’altra parte gli avvenimenti della guerra e del dopo guerra hanno prodotto un largo movimento nelle folle ebraiche, inteso ad ottenere i diritti di minoranze nazionali, ed hanno contemporaneamente allargato di molto l’influenza del sionismo fra gli Ebrei e la sua autorità fra i non-ebrei, inclusi i Governi europei e quello americano. Ne derivò che l’Organizzazione sionistica si vede posta in prima linea nella lotta intrapresa dall’ebraismo per la difesa della sua vita e dei suoi diritti nazionali, tanto che il Sokolow, presidente dell’Esecutivo sionistico, è nello stesso tempo presidente del Comitato delle Delegazioni ebraiche; il Soloveicik, il neo-eletto membro dell’Esecutivo, è ministro degli Affari ebraici in Lituania; l’on. Grünbaum, sionista polacco molto in vista, è il leader del gruppo ebraico nel Sejm polacco; l’on. Stricker occupa la stessa posizione in Austria, ecc. Tale è l’origine del dissidio intorno alla politica sionista, per cosi dire, interna, fra gli Ebrei. Il gruppo di Brandeis è stato rappresentato molto scarsamente al Congresso: come è noto, cotesto gruppo era stato sconfessato dagli stessi Sionisti americani nella loro ultima conferenza del giugno scorso e, rimasto in minoranza, ha preferito di uscire addirittura dall’organizzazione formando una società a sè, il «Palestine Development Council». Chi ha difeso il punto di vista di questo gruppo sono stati soprattutto: il sionista olandese De Lieme, il sionista belga Jean Fischer, il sionista tedesco Julius Simon. La loro opposizione all’Esecutivo, il quale si rendeva solidale col risveglio della vita nazionale nell’ebraismo della dispersione (il Sokolow dichiarò fieramente: «Dovunque e sempre, quando si tratta di difendere l’onore ed il diritto del popolo ebraico, io interverrò a nome dell’Organizzazione sionistica. Chi deve farlo? Un Comitato qualunque che rappresenta qualche centinaio di filantropi o noi che rappresentiamo milioni di Ebrei?»), non ha avuto però alcun successo e il Congresso ha votato la risoluzione per cui «si conferma il manifesto dell’Organizzazione sionistica (pubblicato nell’ottobre 1918), il quale proclamava la rivendicazione dei diritti nazionali per quei nuclei del popolo ebraico che vivono in dispersione e che questi diritti domandino, come una delle méte che l’organizzazione sionistica si è posta durante la guerra». Risoluzioni analoghe furono adottate intorno all’attività sionistica nel Comitato delle Delegazioni ebraiche e nei diversi Parlamenti del mondo.

Più passionata fu la discussione intorno alla politica estera del passato Esecutivo, politica che era spesso sembrata priva di direttive chiare e precise – ciò che si spiega colla situazione addirittura disperata in cui l’ebraismo si era trovato negli ultimi anni della guerra e nel dopo guerra. L’Esecutivo si è presentato al Congresso recando la massima conquista politica del sionismo – la dichiarazione di Balfour-Imperiali-Pichon, - ma anche con le due sollevazioni arabe, quella di Gerusalemme del 1920 e quella di Giaffa del 1921. La dichiarazione è stata accolta dal Congresso con i sensi della massima riconoscenza; ma non sono mancate voci di scetticismoo rispetto all’opera delle Potenze occidentali o, per lo meno, di coloro che oggi stanno a capo dei rispettivi Governi. E questa nota di scetticismo fu recata dallo stesso Weizmann; il quale affermò che l’alleanza fra il sionismo e la Gran Bretagna non è basata su tali interessi inglesi che rendano il sionismo indispensabile per l’Inghilterra, e che ciò richiede quindi da parte dei Sionisti una politica accorta e un lavoro continuo e tenace, senza del quale tutte le dichiarazioni ufficiali sono pezzi di carta. «Se voi, o signori, ha detto Weizmann, vi immaginate che la coincidenza degli interessi ebraici con quelli della Potenza mandataria sia di natura strategica, costruite sopra una falsa base. Se voi credete che noi ci siamo prestati ad essere gli agenti della politica imperialista inglese in Palestina e nell’Oriente vicino, costruite sopra una falsa base… Se voi domandaste oggi a tutti gli imperialisti inglesi se han bisogno della Palestina per i loro scopi imperialistici, voi ne avreste un “no” reciso. La Palestina è inutile per l’Inghilterra, dal punto di vista militare e strategico; coloro che si son immaginati che noi, cioè la Palestina ebraica, siamo assolutamente indispensabili nei confronti di quello che è il nervo vitale dell’Inghilterra, cioè il canale di Suez, si sono sbagliati. Se voi interrogherete i rappresentanti della marina e dell’esercito inglesi, su 100 risposte ne otterrete 95 contro l’occupazione della Palestina. Non immaginate di essere i difensori del canale di Suez. L’Inghilterra vi ha provveduto altrove ed in altro modo. Ma la coincidenza degli interessi che ci legano è un’altra. Essa si basa su quello che si chiama in inglese good will, la buona volontà del popolo ebraico. L’Inghilterra, col suo orizzonte mondiale, ha forse compreso più e prima di qualsiasi altra nazione che il problema ebraico avvolge il mondo come un’ombra e può diventare una forza enorme di costruzione ed una forza enorme di distruzione. E l’Inghilterra ha compreso che usare la buona volontà ebraica e incanalare le forze costruttrici ebraiche attraverso la Palestina sarebbe di un utile enorme. E perciò le forze inglesi che erano alla base della nostra politica non sono state i generali inglesi né gl’imperialisti inglesi, ma gli intellettuali inglesi». Ancora più esplicito è stato il rappresentante dei socialisti, Kaplanzky, col quale Weizmann si è dichiarato quasi integralmente d’accordo: «La dichiarazione per sè non fissa definitivamente la posizione internazionale della Palestina nè la nostra situazione nel paese. Noi non abbiamo ancora la via aperta verso la Palestina. L’Inghilterra non va laggiù per noi, come noi non andiamo là per l'Inghilterra… I partiti reazionari d’Inghilterra cercheranno sempre di concludere un’alleanza con gli effendi (3) e saranno sempre contro di noi. Ma esiste un’altra Inghilterra. La nostra fortuna ed una prova della nostra vitalità consistono nel fatto che possiamo appoggiarci alle forze proletarie dell’Inghilterra… Il vero aiuto non ci verrà che da parte dell’Inghilterra operaia».

Al di fuori di questo accenno, nessun delegato ha potuto però scoprire alcuna forza internazionale sicura, a cui il movimento nazionale ebraico potrebbe appoggiarsi con assoluta fiducia, all’infuori del popolo ebraico medesimo. «Il nostro anelito verso la Terra d’Israele, il nostro anelito verso il lavoro e la libertà, il nostro anelito per la ricostruzione della nostra vita, la nostra disperazione sono le grandi forze rivoluzionarie, sono l’unica forza internazionale di cui possiamo servirci».

Con queste parole dello stesso leader socialista si mostrò concorde la totalità del Congresso, che concluse perciò i suoi lavori non con un appello al mondo civile o alle grandi Potenze, ma con un appello al popolo ebraico, invitandolo ai massimi sacrificî perché «la nostra opera in Terra d’Israele è in pericolo a causa della debolezza del nostro sforzo, dalla quale è derivata la nostra debolezza politica. Un’ombra avvolge i nostri diritti conquistati nella guerra e nella pace. L'ora è grave. Si moltiplicano ostacoli ed impedimenti. Nemici che vogliono strozzare la nostra speranza sollevano la testa. L’ora del cimento grave è venuta. Il nostro popolo deve raccogliere le sue forze creatrici e costruttrici».

Fra le altre questioni internazionali che furon trattate, nessun disaccordo o discussione venne sollevata dal problema dei Luoghi Santi, intorno al quale il Congresso si limitò alla seguente dichiarazione ufficiale di Sokolow: «Negli ultimi tempi si prese nuovamente la santità della Palestina come argomento contro il sionismo. Che la Palestina sia sacra per le grandi religioni dell’umanità è un fatto che non abbiamo mai trascurato. Noi comprendiamo i sensi di riverenza e d’entusiasmo che i Luoghi Santi del cristianesimo risvegliano nelle anime credenti; apprezziamo la pia devozione dell’Islam per i suoi monumenti religiosi. Abbiamo acquistato, nella lotta con noi stessi, questa nobiltà di calma e quest’altezza di stima. I più inviolabili diritti della fede e della libertà religiosa debbono regnare in Gerusalemme, la città nobilitata da Dio, poiché Gerusalemme non è solo una città, ma un principio: il principio della pace. Se esiste un luogo che un giorno avvincerà in un legame di fratellanza tutte le nazioni e le religioni, questo luogo è Gerusalemme. Fino a quel tempo devono esser mantenuti rapporti tali che siano basati sulla stima reciproca.

Per noi ogni pietra, ogni granello di sabbia di Palestina son sacri e desideriamo veder protetti e rispettati tutti i santuari del Paese. Tale dichiarazione facemmo a suo tempo al Venerabile Capo della Chiesa Cattolica, il quale ci dette piena espressione dei suoi sentimenti umanitari. Ci siamo fin da principio gravemente preoccupati che altri spiriti non venissero a guastare quell’opera iniziata colla coscienza della più alta responsabilità del Bene. Comunque sia, non vogliamo abbandonare la speranza che il cammino degli eventi ci faccia superare anche questo malinteso».

La più grave preoccupazione che provò il Congresso fu quella prodotta dalla situazione in Palestina. Non tanto per la condotta di H. Samuel, poichè la maggior parte dei congressisti riconosceva che il Governatore della Palestina si era trovato in una condizione molto difficile e che soltanto una parte di colpa, negli avvenimenti di maggio, ricadeva su di lui. I delegati palestinesi recarono molte accuse contro l’Alto Commissario, accuse dalle quali risultò che la sua condotta non era stata sempre imparziale e che ad ogni modo egli aveva commesso un grave errore vietando l’immigrazione subito dopo l’eccidio di Giaffa; cosa che poteva far credere agli Arabi che essi avrebbero potuto ottenere tutto quello che volevano purché avessero commesso dei «pogrom». Comunque sia, l’opposizione contro Samuel, che in alcuni momenti del Congresso prese forme molto tumultuose, sì da dover far sospendere, per esempio, la lettura del suo telegramma d’augurio, sfumò poi durante i lavori, forse sotto l’influenza personale di Weizmann che lo difese con molta abilità, pur prospettando la possibilità di un conflitto fra Samuel, Alto Commissario per la Palestina, e i Sionisti, alti commissari per la Terra d’Israele.

Non dunque Samuel, ma la popolazione araba fu causa della preoccupazione dèl Congresso per la situazione palestinese. I rapporti presentati al Congresso han permesso di concludere che l’ostilità da parte della popolazione araba contro la ricostruzione del centro ebraico in Palestina, quantunque assai esagerata nella stampa sciovinista araba e in quella europea, esiste di fatto, e che è assolutatamente necessario tenerne conto. Il problema stesso fu chiaramente posto in termini eguali da tutti i congressisti: è indispensabile creare tali condizioni che permettano di svolgere l’opera ricostruttiva in Palestina, in completa calma e tranquillità, cioè in completo accordo cogli Arabi. Le diverse tendenze cominciarono a manifestarsi solo intorno al modo di raggiungere tale accordo. Weizmann rappresentava in certo modo la tendenza media:

«Ci è cagione di grave dolore dover considerare fra le forze avversarie, almeno per ora, una parte della popolazione araba di Palestina. La nostra politica rispetto agli Arabi è chiara e precisa. Non vogliamo rinunciare neppure ad un jota dei diritti che la dichiarazione di Balfour ci ha garantiti; e il riconoscimento di questo fatto da parte degli Arabi è una promessa essenziale per le amichevoli relazioni fra Ebrei ed Arabi. La renitenza momentanea che essi mettono a riconoscere questo fatto ci costringe a pensare ai mezzi di difesa delle nostre colonie contro gli assalti degli Arabi. La difesa della vita è un dovere elementare. Ma noi proclamiamo chiaramente e solennemente che non nutriamo alcun pensitero di violenza nè alcuna idea di diminuire i legittimi diritti dei nostri vicini. Noi speriamo in un futuro in cui Ebrei ed Arabi in Palestina vivano insieme e lavorino alla prosperità del paese. Nulla impedirà l’avvento di quest’èra se i nostri vicini capiranno che i diritti nostri sono altrettanto cari e sacri a noi quanto i loro diritti son cari a loro». In altro suo discorso, essendogli stato rimproverato di non aver saputo trovare la via dell’accordo perché si era limitato alle trattative con Faisal, Weizmann difese la sua azione sostenendo che Faisal è «il simbolo della libertà araba ». Il suo punto di vista è stato quindi: riconoscimento preventivo, da parte degli Arabi, dei diritti ebraici sulla Palestina; rafforzamento della posizione degli Ebrei; trattative con i capi del movimento arabo.

Una delle tendenze estreme fu capitanata da un altro membro dell’Esecutivo, ]abotinsky, che, forte del ricordo degli eccessi anti-ebraici e della conseguente indignazione dell’ebraismo, appoggiandosi alle forme spurie con cui si è iniziato il movimento nazionale arabo e al fatto che quando in Palestina c’era la legione ebraica (composta durante la guerra di volontari ebrei che presero parte ai combattimenti contro i Turchi) nessuno aveva mai pensato alla possibilità di eccessi antiebraici, chiedeva la formazione di una nuova legione ebraica, pur professando, anch’egli, l’assoluta necessità di un accordo duraturo con gli Arabi. «La situazione politica è difficile, noi siamo una minoranza in Palestina e la maggioranza, – così si dice, – non ci vuole. Ma l’America e l’Australia furono forse colonizzate col consenso degli indigeni? Si possono, naturalmente, creare, nel processo della ricostruzione, condizioni tali che agiscano in modo tranquillizzante e ci procurino amici; ma per far questo bisogna che la pace regni nel paese. Nel primo stadio difficile della colonizzazione è necessaria percò una difesa la quale può essere costituita solo da forze che amino cotesto compito e non lo considerino con indifferenza», cioè dagli Ebrei.

La terza corrente, rimasta in gran parte dei suoi postulati vincitrice, era capitanata dallo scrittore sionista Martin Buber e si appoggiava sopra tutto alle sinistre. Pur riconoscendo l’assoluta necessità della difesa in caso di attacco, e della preparazione a tale difesa, questa corrente rigettava ogni progetto di forza armata che fosse esclusivamente ebraica e proponeva invece o un’auto-difesa ebraica o unità armate miste (ebreo-arabe) o unità divise ma sempre ed ebree ed arabe. Per addivenire ad un accordo duraturo colla popolazione araba la nuova collettività ebraica dovrebbe svolgere una larga opera culturale ed economica presso i fellahin (contadini), elevando il loro livello di vita ed aiutandoli nella loro riscossa nazionale e sociale; non curandosi del fatto che, oggi come oggi, il moto nazionale arabo è ispirato più dagli interessi e dagli intrighi dei latifondisti che dalla chiara coscienza che il popolo ha della sua nazionalità. «Il popolo ebraico, ha detto Buber, che è da due millenni una minoranza oppressa in tutti i paesi, rigetta con repulsione i metodi del nazionalismo dei dominatori, di cui fu vittima per sì lungo tempo. Noi non ritorniamo nel paese, a cui ci avvincono legami storici e spirituali indistruttibili e la cui terra offre posto sufficiente per noi e per i suoi abitanti attuali, per sostituire o dominare alcun altro popolo. Il nostro ritorno nella Terra d’Israele non vuole danneggiare alcun diritto degli altri. In una giusta alleanza col popolo arabo noi vogliamo creare una collettività fiorente economicamente e culturalmente, la cui vita assicuri a ciascun suo membro nazionale uno sviluppo libero ed autonomo. La nostra colonizzazione, che mira esclusivamente a salvare e a rinnovare il nostro popolo, non ha per mèta lo sfruttamento capitalistico di una regione nè serve ad alcuno scopo imperialista; il suo significato è il lavoro creativo degli uomini liberi sulla terra comune. In questo carattere sociale del nostro ideale nazionale sta la garanzia più potente che fra noi ed il popolo lavoratore arabo si manifesterà una profonda e duratura solidarietà di interessi reali».

È significativo che nessuna voce, fra gli appartenenti a tutte le tendenze, si è levata con parole oltraggiose od offensive contro il popolo arabo, e che, nella vasta visione dell’avvenire dell’Oriente, Sokolow, oratore al solito molto prudente e cauto, si è posto dalla parte della terza tendenza. «Noi siamo i naturali alleati, egli ha detto, di quei popoli che sono risorti e combattono per la loro libertà nazionale, specialmente dei popoli del vicino Oriente. Non via dall’Oriente, ma con l’Oriente noi realizzeremo tutti i nostri ideali. La Grande Arabia, la Mesopotamia, la Siria e la Palestina offrono un ricco campo di azione per le energie e lo spirito dei loro popoli. La parola d’ordine sia: l’uno con l’altro e non l’uno contro l’altro! Noi siamo decisi a dedicare quanto di meglio è nella nostra conoscenza e nel nostro potere a quest’opera di civiltà. Per noi v’ha solo una possibilità per la nostra convivenza – la reciproca comprensione. Si immagini che le piccole cerchie d’intellettuali di tutti i popoli siano conquistate da cotesto pensiero, si immagini che questo ideale dell’umanità prorompa come una primavera invincibile dai cuori degli uomini, ed allora noi potremo creare con potenti energie una nuova perfetta vita per i popoli dell’Oriente… O popoli dell’Oriente, noi vi portiamo un messaggio di rinascita, di progresso, di redenzione! Guardate, tutti noi abbiamo bisogno di consolazione, siamo stati nell’oscurità della disperazione, la nostra opera fu discorde. Noi dobbiamo liberarcene e ce ne libereremo».

In conformità con quest’ultima tendenza il Congresso ha preso due risoluzioni in cui ha dichiarato che «l’atteggiamento ostile di una parte della popolazione araba aizzata da elementi incoscienti non può indebolire nè la nostra decisione per la ricostruzione del centro nazionale ebraico nè la nostra volontà di vivere in rapporti di armonia e di stima reciproca col popolo arabo, e di fare, d’accordo con lui, della sede comune una fiorente collettività la cui vita assicuri lo sviluppo libero a ciascuno dei suoi popoli... Il Congresso afferma in modo esplicito che l’opera di colonizzazione ebraica non danneggerà i diritti ed i bisogni del popolo lavoratore arabo».

* * *

In complesso il Congresso di Carlsbad ha ricostruito e rinnovato l’organizzazione, ha tracciatole basi finanziarie e il piano economico della colonizzazione e le nuove direttive della politica estera, inquadrando il movimento sionistico nella rinascita dei popoli del vicino Oriente. L’atmosfera del Congresso non fu quale era forse da attendersi dopo i successi diplomatici che il sionismo ebbe negli otto anni trascorsi dopo il Congresso di Vienna; la catastrofe dell’ebraismo dell’Europa orientale, il ricordo degli avvenimenti di Gerusalemme e di Giaffa, il grande lavoro che l’organizzazione ha da compiere, hanno impresso all’assemblea un carattere piuttosto grave. Al di sopra però stava la fiducia assoluta nel successo finale. Chiudendo il Congresso, Weizmann ha detto: «Sono state ore gravi, ore di lotta, di ricerca di una via che non si apre ancora completamente chiara dinanzi ai nostri occhi. L’ascesa è molto difficile, ma se noi avremo coscienza di queste difficoltà non avremo forse alcuna delusione. Abbiamo il senso della via difficile che dobbiamo percorrere, ma anche della volontà indistruttibile del popolo ebraico che sta dietro a noi. Io credo che il Dio forte, severo e giusto d’Israele vigilerà sui suoi figli nel loro grave cimento e che da esso sorgerà una generazione migliore che troverà la via diritta e giusta verso Sion».

M. BEILINSON

Note redazionali di “Oriente Moderno”

(1) Cfr. Oriente Moderno, fasc. 5°, p. 292-293 ; il Congresso ebbe luogo dal 1° al 14 settembre, e ad esso partecipò il Dr. Beilinson al quale dobbiamo questa lucida sintesi dei lavori, scritta appositamente per noi.
(2) Keren Hajjsod, «Fondo di Ricostruzione».
(3) Cioè Musulmani europeizzati.

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