Home della «Questione sionista»
Mentre valgono le considerazioni generali già fatte per le precedenti fonti documentarie, di cui in Elenco Numerico,
pare qui opportuno rilevare ogni volta la casualità e imparzialità
con la quale le diverse fonti si aggiungono le une alle altre,
animati da una pretesa di completezza, che sappiamo difficile da
raggiungere. Fin dal sorgere della questione sionista l’«Osservatore
Romano» segue con la sensibilità che le è propria i fatti
nel loro divenire giorno dopo giorno, aiutandoci a capire
oggi i veri nodi di una problematica, sempre più nascosta
dietro l’ideologia e la propaganda. Se l’interesse religioso
per i Luoghi Santi è quello prevalente nelle considerazioni
della Santa Sede ed ispira la sua diplomazia e la sua
geopolitica, non per questo manca la percezione di una grande
ingiustizia consumata sulla popolazione indigena.
LA QUESTIONE SIONISTA
E IL VICINO ORIENTE
Home
tratta da “L’Osservatore Romano”
Anno inizio spoglio: 1921. |
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Sommario: Anno 1948 di “L’Osservatore Romano” → 1. – Apprensioni per gli sviluppi della situazione palestinese. – 2. Egitto e Israele acconsentono a cessare le ostilità. – 3. Nuovi aspetti della questione palestinese. – 4. La situazione nel Medio Oriente. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1949. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1949. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1949. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1949. –
Cap. 1
L’Osservatore Romano,
5 gennaio 1949, p. 2
PARIGI, 4. – Un’intensa attività diplomatica è in corso a Parigi in rapporto alla situazione palestinese. L’Ambasciatore degli Stati Uniti Jefferson Caffery ha avuto ieri mattina un lungo colloquio con il ministro degli Affari Esteri francese Robert Schuman e con diverse personalità ufficiali britanniche attualmente nella capitale francese. Ma non si è potuto avere conferma diretta, nei circoli diplomatici, della notizia di stampa secondo la quale l’Inghilterra ha minacciato di intervenire apertamente a fianco degli arabi in Terrasanta.
Si ha da Washington che anche alla Casa Bianca si mantiene il massimo silenzio nei confronti delle notizie da Londra circa l’atteggiamento che potrà prendere l’Inghilterra in conseguenza dell’attività di truppe ebraiche ai confini dell’Egitto e delle violazioni della tregua delle ostilità in Palestina.
L’Ambasciatore britannico Sir Oliver Franks – informa l’«INS» – ha disdetto un appuntamento che aveva con il Presidente Truman, per illustrargli, verosimilmente, il punto di vista britannico sugli ultimi sviluppi della situazione palestinese.
Ed il segretario presidenziale per la stampa Charles G. Ross ha dichiarato di non sapere per quale ragione l’udienza è stata disdetta. Negli ambienti diplomatici si ritiene che l’Ambasciatore Franks abbia ricevuto istruzioni da Londra di rinviare il colloquio con il Presidente fino a quando Londra non sia pronta ad annunciare una nuova linea di condotta.
Intanto negli ambienti ufficiali di Washington si teme sempre più che la situazione nel Medio Oriente possa peggiorare. Si ha da Tel Aviv che i giornali locali riferiscono che nel corso della sua seduta della notte, il Governo di Israele avrebbe esaminato la possibilità di un intervento armato dei britannici contro Israele. Il foglio progressista «Haaretz» afferma che unità di «commandos» e reparti corazzati britannici hanno ricevuto l’ordine di tenersi pronti nella zona del Canale di Suez, nell’eventualità di dover attraversare la frontiera di Israele per penetrare nel Negev, mentre aerei della RAF continuano i loro voli di ricognizione sulle truppe ebraiche schierate sul fronte meridionale. Il giornale aggiunge che dipende da Washington se i britannici decideranno di occupare la penisola del Sinai ed altre posizioni strategiche lungo la frontiera egiziana.
Un portavoce del Ministero degli Esteri di Israele, ricordando come il Governo ebraico avesse accettato, tempo addietro, delle proposte del mediatore Bunche in base alle quali, iniziandosi i negoziati per un armistizio con l’Egitto, le forze ebraiche avrebbero permesso l’evacuazione delle forze egiziane bloccate a Falluja, ha dichiarato che la decisa volontà del Governo egiziano di rifiutarsi a qualsiasi trattativa di armistizio e le sue rinnovate attività militari nel Negev non lasciano dubbio circa l’intenzione del Governo egiziano di proseguire indefinitamente la guerra.
«In queste circostanze – ha proseguito il portavoce – non solo sarebbe inconcepibile permettere l’evacuazione delle forze egiziane bloccate a Falluja, ma il Governo ebraico si vede costretto a riprendere la sua libertà d’azione ed a por fine ad una intollerabile situazione, a tutela della sicurezza di Israele».
Il Governo egiziano ha annunciato ieri di avere accettato la mozione del Consiglio di Sicurezza del 29 dicembre per la cessazione del fuoco del Negev «allo scopo di dimostrare il suo rispetto per una decisione presa dalle Nazioni Unite ed il suo desiderio di favorire un ritorno della pace in Palestina».
Da Londra la «France Presse» informa che al Foreign Office si mantiene il più assoluto riserbo a proposito del rapporto trasmesso dall’Ambasciatore britannico a Washington Sir Oliver Francks al Ministro Bevin sul suo colloquio di venerdì scorso con il Sottosegretario di Stato americano Robert Lovett. Viene però messo in risalto il fatto che, contrariamente a certe informazioni, Francks non ha consegnato alcuna nota al Sottosegretario di Stato, limitandosi a procedere con quest’ultimo ad uno scambio di vedute sul problema palestinese.
A tale proposito, come già sabato scorso, negli ambienti del Foreign Office ci si limita a dichiarare che «la situazione è estremamente confusa lungo la frontiera tra la Palestina e l’Egitto». Da Londra l’«INS» informa che nel tardo pomeriggio di ieri si è intensificata l’attività diplomatica e di gabinetto a Whitehall mentre si diffondeva contemporaneamente la voce che l’Inghilterra si accinge a chiedere la solidarietà degli Stati Uniti nell’invocare l’applicazione di sanzioni delle Nazioni Unite contro lo Stato di Israele.
Al Foreign Office intanto si mantiene il massimo riserbo sulla notizia da Tel Aviv secondo la quale un portavoce ebraico ha dichiarato che l’Inghilterra «deve ora essere considerata un’alleata aperta degli arabi»: ci si limita a dichiarare di non aver conferma autentica della notizia e nemmeno dell’altra secondo la quale l’Ambasciata britannica a Washington è stata informata che le truppe ebraiche stanno ritirandosi dalla zona del Negev, nella Palestina meridionale.
Dal Cairo, invece, è giunta un’altra versione di questo ritiro; il Ministro della guerra egiziano ha annunciato che le forze egiziane non soltanto hanno bloccato l’avanzata ebraica ma costretto le truppe d’Israele ad indietreggiare e che l’aviazione egiziana sta mitragliando le forze avversarie in ritirata, infliggendo loro gravi perdite.
Il Primo Ministro egiziano Ibrahim Abdul Hadi Pascià, succeduto nei giorni scorsi all’assassinato Nokrashi Pascià, ha dichiarato ieri che la liberazione araba della Palestina «è una missione nazionale ed umanitaria». Nel suo primo grande discorso come Capo del Governo egiziano, egli ha sottolineato che l’Egitto mantiene immutata la politica dei precedenti gabinetti per quanto riguarda la Palestina.
Si ha da Washington che anche alla Casa Bianca si mantiene il massimo silenzio nei confronti delle notizie da Londra circa l’atteggiamento che potrà prendere l’Inghilterra in conseguenza dell’attività di truppe ebraiche ai confini dell’Egitto e delle violazioni della tregua delle ostilità in Palestina.
L’Ambasciatore britannico Sir Oliver Franks – informa l’«INS» – ha disdetto un appuntamento che aveva con il Presidente Truman, per illustrargli, verosimilmente, il punto di vista britannico sugli ultimi sviluppi della situazione palestinese.
Ed il segretario presidenziale per la stampa Charles G. Ross ha dichiarato di non sapere per quale ragione l’udienza è stata disdetta. Negli ambienti diplomatici si ritiene che l’Ambasciatore Franks abbia ricevuto istruzioni da Londra di rinviare il colloquio con il Presidente fino a quando Londra non sia pronta ad annunciare una nuova linea di condotta.
Intanto negli ambienti ufficiali di Washington si teme sempre più che la situazione nel Medio Oriente possa peggiorare. Si ha da Tel Aviv che i giornali locali riferiscono che nel corso della sua seduta della notte, il Governo di Israele avrebbe esaminato la possibilità di un intervento armato dei britannici contro Israele. Il foglio progressista «Haaretz» afferma che unità di «commandos» e reparti corazzati britannici hanno ricevuto l’ordine di tenersi pronti nella zona del Canale di Suez, nell’eventualità di dover attraversare la frontiera di Israele per penetrare nel Negev, mentre aerei della RAF continuano i loro voli di ricognizione sulle truppe ebraiche schierate sul fronte meridionale. Il giornale aggiunge che dipende da Washington se i britannici decideranno di occupare la penisola del Sinai ed altre posizioni strategiche lungo la frontiera egiziana.
Un portavoce del Ministero degli Esteri di Israele, ricordando come il Governo ebraico avesse accettato, tempo addietro, delle proposte del mediatore Bunche in base alle quali, iniziandosi i negoziati per un armistizio con l’Egitto, le forze ebraiche avrebbero permesso l’evacuazione delle forze egiziane bloccate a Falluja, ha dichiarato che la decisa volontà del Governo egiziano di rifiutarsi a qualsiasi trattativa di armistizio e le sue rinnovate attività militari nel Negev non lasciano dubbio circa l’intenzione del Governo egiziano di proseguire indefinitamente la guerra.
«In queste circostanze – ha proseguito il portavoce – non solo sarebbe inconcepibile permettere l’evacuazione delle forze egiziane bloccate a Falluja, ma il Governo ebraico si vede costretto a riprendere la sua libertà d’azione ed a por fine ad una intollerabile situazione, a tutela della sicurezza di Israele».
Il Governo egiziano ha annunciato ieri di avere accettato la mozione del Consiglio di Sicurezza del 29 dicembre per la cessazione del fuoco del Negev «allo scopo di dimostrare il suo rispetto per una decisione presa dalle Nazioni Unite ed il suo desiderio di favorire un ritorno della pace in Palestina».
Da Londra la «France Presse» informa che al Foreign Office si mantiene il più assoluto riserbo a proposito del rapporto trasmesso dall’Ambasciatore britannico a Washington Sir Oliver Francks al Ministro Bevin sul suo colloquio di venerdì scorso con il Sottosegretario di Stato americano Robert Lovett. Viene però messo in risalto il fatto che, contrariamente a certe informazioni, Francks non ha consegnato alcuna nota al Sottosegretario di Stato, limitandosi a procedere con quest’ultimo ad uno scambio di vedute sul problema palestinese.
A tale proposito, come già sabato scorso, negli ambienti del Foreign Office ci si limita a dichiarare che «la situazione è estremamente confusa lungo la frontiera tra la Palestina e l’Egitto». Da Londra l’«INS» informa che nel tardo pomeriggio di ieri si è intensificata l’attività diplomatica e di gabinetto a Whitehall mentre si diffondeva contemporaneamente la voce che l’Inghilterra si accinge a chiedere la solidarietà degli Stati Uniti nell’invocare l’applicazione di sanzioni delle Nazioni Unite contro lo Stato di Israele.
Al Foreign Office intanto si mantiene il massimo riserbo sulla notizia da Tel Aviv secondo la quale un portavoce ebraico ha dichiarato che l’Inghilterra «deve ora essere considerata un’alleata aperta degli arabi»: ci si limita a dichiarare di non aver conferma autentica della notizia e nemmeno dell’altra secondo la quale l’Ambasciata britannica a Washington è stata informata che le truppe ebraiche stanno ritirandosi dalla zona del Negev, nella Palestina meridionale.
Dal Cairo, invece, è giunta un’altra versione di questo ritiro; il Ministro della guerra egiziano ha annunciato che le forze egiziane non soltanto hanno bloccato l’avanzata ebraica ma costretto le truppe d’Israele ad indietreggiare e che l’aviazione egiziana sta mitragliando le forze avversarie in ritirata, infliggendo loro gravi perdite.
Il Primo Ministro egiziano Ibrahim Abdul Hadi Pascià, succeduto nei giorni scorsi all’assassinato Nokrashi Pascià, ha dichiarato ieri che la liberazione araba della Palestina «è una missione nazionale ed umanitaria». Nel suo primo grande discorso come Capo del Governo egiziano, egli ha sottolineato che l’Egitto mantiene immutata la politica dei precedenti gabinetti per quanto riguarda la Palestina.
Cap. 2
L’Osservatore Romano,
7-8 gennaio 1949, p. 1
LAKE SUCCESS, 7. – Un funzionario dell’ONU ha annunciato che sia l’Egitto che lo Stato di Israele hanno acconsentito a cessare le ostilità alle ore 15 di oggi. I due Stati hanno comunicato la loro decisione al mediatore Bunche.
Il funzionario ha aggiunto che la cessazione delle ostilità sarà seguita immediatamente da negoziati tra i rappresentanti dei due governi, sotto la presidenza dell’ONU, per l’attuazione delle mozioni di armistizioapprovate dal Consiglio di Sicurezz' il 4 e il 16 novembre.
La proposta di cessare le ostilità venne avanzata dall’Egitto, che la comunicò al dott. Bunche attraverso il rappresentante dell’ONU al Cairo. Il mediatore la trasmise al Governo di Israele dal quale ha ricevuto ora il consenso.
LONDRA, 10. – In attesa del risultato dell’inchiesta, il Ministro degli esteri britannico Bevin, ha convocato i consulenti per il Medio Oriente, onde esaminare con essi gli ultimi sviluppi della situazione palestinese; subito dopo tale riunione avrà luogo il Consiglio dei Ministri. Il Foreign Office, inoltre, ha inviato alle autorità israelite una vivace protesta che, però, è stata rinviata non solo dal rappresentante ebraico a Lake Success, ma anche dalle autorità di Haifa, essendo essa indirizzata alle «autorità ebraiche in Palestina» e non al «Governo provvisorio di Israele».
Secondo le prime notizie - che debbono però, ancora essere confermate ufficialmente - gli apparecchi ebraici attaccanti erano «Messerschmidt 109» recentemente importati dalla Cecoslovacchia e gli aerei britannici, non prevedendo l’attacco, sono stati colti di sorpresa.
Anche i componenti la Commissione di tregua dell’ONU per il Negev si sono riuniti presso il Console generale francese René Neuville, per discutere sulla situazione creatasi in seguito all’abbattimento dei 5 apparecchi della RAF; la riunione è durata più di un’ora, e subito dopo il Presidente della Commissione stessa, Jean Nieuwenhuys, è partito per Amman insieme con il colonnello Carleson, osservatore dell’ONU a Gerusalemme.
La stampa inglese, frattanto, dedica ampi commenti all’avvenimento. Fra gli altri, il Daily Mail, osserva che mentre l’Inghilterra ha scrupolosamente osservato il divieto posto dalle Nazioni Unite sull’invio di armi agli Arabi, gli ebrei hanno ricevuto continuamente cannoni, carri armati, aerei e munizioni dagli arsenali governativi della Cecoslovacchia. Tali arsenali - aggiunge il Daily Mail - lavorano per la Russia, la quale ha iniziato un vasto contrabbando di armi sicchè ciascuno è libero di uccidere il prossimo nei deserti dell’Arabia».
Altri giornali, come il Daily Express, il Daily Telegraph e la Yorkshire Post usano espressioni particolarmente vivaci nei confronti del Governo di Tel Aviv, mentre il News Chronicle ammonisce che gli ebrei si sbagliano se credono che «l’Inghilterra non esista più nel Vicino Oriente».
Il giornale comunista Daily Worker, invece, sostiene che Bevin intende prolungare la guerra in Palestina con l’impiego di pattuglie della RAF in Egitto e con l’aiuto di truppe ad Akaba, in Transgiordania. Il Daily Worker chiede, quindi, che le truppe britanniche vengano richiamate dal Medio Oriente e che l’Inghilterra riconosca il Governo di Tel Aviv.
A proposito della presenza di truppe britannichc ad Akaba, l’Associated Press rileva che di punto in bianco la Transgiordania ha modificato il suo ruolo nella guerra palestinese, invocando il trattato concluso nel 1936 con l’Inghilterra, trattato che autorizza il Governo di Amman a chiedere aiuti militari in caso di aggressione. Tale richiesta osserva ancora l’A. P., compromette notevolmente le speranze relative alla conclusione di un armistizio fra i belligeranti.
La Transgiordania, infatti, è giustamente considerata la chiave di volta delle trattative per la pace in Transgiordania; la sua decisione, quindi, di far ricorso al trattato suddetto, insieme al caso dei cinque apparecchi della RAF, abbattuti dagli ebrei, ha quanto mai complicato le possibilità, appunto, di un armistizio, tanto più che dal primo dicembre le truppe transgiordane avevano sospeso le ostilità su tutti fronti.
Dieci giorni or sono, anzi, nel corso di una conferenza segreta svoltasi ad Amman, la Transgiordania e l’Iraq avevano comunicato al Cairo di non essere per il momento in grado di venire in aiuto dei reparti egiziani impegnati nella battaglia del Negev. Così allorché l’Egitto accettava l’ordine di cessare il fuoco e l’apertura di trattative per l’armistizio, sembrò che la pace dovesse alla fine giungere in Terrasanta; ma questi colloqui per la pace sembrano destinati a fallire se gli ebrei non accettano di ritirarsi completamente dal Negev.
Certo è - rileva la stessa A. P. - che l’Inghilterra sente di non poter permettere a un’altra nazione di rinanere in possesso di questa zona di deserto sabbioso che forma una specie di barriera protettiva alla zona del canale di Suez e ad Akaba, porto della Transgiordania.
L’annuncio che Londra ha deciso di inviare sue truppe ad Akaba, conferma le preoccupazioni della Gran Bretagna per la sorte di questa piccola città del Mar Rosso. Akaba è, infatti, il cardine di tutte le
comunicazioni inglesi nel Vicino Oriente.
Il Negev, inoltre, nella sua solitudine sabbiosa, nasconde una notevolissima quantità di minerali, come rame, cromo, magnesio, zolfo e petrolio. Poco prima dello scoppio delle ostilità, e cioè nello scorso maggio, erano già al lavoro nella zona squadre di tecnici americani per trivellazioni del suolo
a Sud di Gaza.
Allorchè gli inglesi se ne andarono, gli ebrei non persero tempo e, forti di valuta americana e pronti ad assumersi le spese di impianti moderni, pensarono a sfruttare questi tesori del sottosuolo desertico. È perciò che la conquista di queste zone di terreno venne tentata con tanto accanimento da parte degli ebrei. Chiunque controlla il Negev è in grado di dominare anche il Mar Morto.
In tale zona, posta a qualche centinaio di metri al di sotto del livello mare, si ritiene giacciono 40 miliardi di tonnellate di minerali potassio, bromuri, magnesio e fosfati. La sola disponibilità di potassio di questa zona sarebbe sufficiente per un secolo al fabbisogno mondiale. Ecco perchè due nomi fino a poco tempo fa quasi insignificanti, Akaba e Negev, sono ora all’ordine del giorno in tutte le cronache
Il funzionario ha aggiunto che la cessazione delle ostilità sarà seguita immediatamente da negoziati tra i rappresentanti dei due governi, sotto la presidenza dell’ONU, per l’attuazione delle mozioni di armistizioapprovate dal Consiglio di Sicurezz' il 4 e il 16 novembre.
La proposta di cessare le ostilità venne avanzata dall’Egitto, che la comunicò al dott. Bunche attraverso il rappresentante dell’ONU al Cairo. Il mediatore la trasmise al Governo di Israele dal quale ha ricevuto ora il consenso.
Cap. 3
L’Osservatore Romano,
10-11 gennaio 1949, p. 4
Secondo le prime notizie - che debbono però, ancora essere confermate ufficialmente - gli apparecchi ebraici attaccanti erano «Messerschmidt 109» recentemente importati dalla Cecoslovacchia e gli aerei britannici, non prevedendo l’attacco, sono stati colti di sorpresa.
Anche i componenti la Commissione di tregua dell’ONU per il Negev si sono riuniti presso il Console generale francese René Neuville, per discutere sulla situazione creatasi in seguito all’abbattimento dei 5 apparecchi della RAF; la riunione è durata più di un’ora, e subito dopo il Presidente della Commissione stessa, Jean Nieuwenhuys, è partito per Amman insieme con il colonnello Carleson, osservatore dell’ONU a Gerusalemme.
La stampa inglese, frattanto, dedica ampi commenti all’avvenimento. Fra gli altri, il Daily Mail, osserva che mentre l’Inghilterra ha scrupolosamente osservato il divieto posto dalle Nazioni Unite sull’invio di armi agli Arabi, gli ebrei hanno ricevuto continuamente cannoni, carri armati, aerei e munizioni dagli arsenali governativi della Cecoslovacchia. Tali arsenali - aggiunge il Daily Mail - lavorano per la Russia, la quale ha iniziato un vasto contrabbando di armi sicchè ciascuno è libero di uccidere il prossimo nei deserti dell’Arabia».
Altri giornali, come il Daily Express, il Daily Telegraph e la Yorkshire Post usano espressioni particolarmente vivaci nei confronti del Governo di Tel Aviv, mentre il News Chronicle ammonisce che gli ebrei si sbagliano se credono che «l’Inghilterra non esista più nel Vicino Oriente».
Il giornale comunista Daily Worker, invece, sostiene che Bevin intende prolungare la guerra in Palestina con l’impiego di pattuglie della RAF in Egitto e con l’aiuto di truppe ad Akaba, in Transgiordania. Il Daily Worker chiede, quindi, che le truppe britanniche vengano richiamate dal Medio Oriente e che l’Inghilterra riconosca il Governo di Tel Aviv.
A proposito della presenza di truppe britannichc ad Akaba, l’Associated Press rileva che di punto in bianco la Transgiordania ha modificato il suo ruolo nella guerra palestinese, invocando il trattato concluso nel 1936 con l’Inghilterra, trattato che autorizza il Governo di Amman a chiedere aiuti militari in caso di aggressione. Tale richiesta osserva ancora l’A. P., compromette notevolmente le speranze relative alla conclusione di un armistizio fra i belligeranti.
La Transgiordania, infatti, è giustamente considerata la chiave di volta delle trattative per la pace in Transgiordania; la sua decisione, quindi, di far ricorso al trattato suddetto, insieme al caso dei cinque apparecchi della RAF, abbattuti dagli ebrei, ha quanto mai complicato le possibilità, appunto, di un armistizio, tanto più che dal primo dicembre le truppe transgiordane avevano sospeso le ostilità su tutti fronti.
Dieci giorni or sono, anzi, nel corso di una conferenza segreta svoltasi ad Amman, la Transgiordania e l’Iraq avevano comunicato al Cairo di non essere per il momento in grado di venire in aiuto dei reparti egiziani impegnati nella battaglia del Negev. Così allorché l’Egitto accettava l’ordine di cessare il fuoco e l’apertura di trattative per l’armistizio, sembrò che la pace dovesse alla fine giungere in Terrasanta; ma questi colloqui per la pace sembrano destinati a fallire se gli ebrei non accettano di ritirarsi completamente dal Negev.
Certo è - rileva la stessa A. P. - che l’Inghilterra sente di non poter permettere a un’altra nazione di rinanere in possesso di questa zona di deserto sabbioso che forma una specie di barriera protettiva alla zona del canale di Suez e ad Akaba, porto della Transgiordania.
L’annuncio che Londra ha deciso di inviare sue truppe ad Akaba, conferma le preoccupazioni della Gran Bretagna per la sorte di questa piccola città del Mar Rosso. Akaba è, infatti, il cardine di tutte le
comunicazioni inglesi nel Vicino Oriente.
Il Negev, inoltre, nella sua solitudine sabbiosa, nasconde una notevolissima quantità di minerali, come rame, cromo, magnesio, zolfo e petrolio. Poco prima dello scoppio delle ostilità, e cioè nello scorso maggio, erano già al lavoro nella zona squadre di tecnici americani per trivellazioni del suolo
a Sud di Gaza.
Allorchè gli inglesi se ne andarono, gli ebrei non persero tempo e, forti di valuta americana e pronti ad assumersi le spese di impianti moderni, pensarono a sfruttare questi tesori del sottosuolo desertico. È perciò che la conquista di queste zone di terreno venne tentata con tanto accanimento da parte degli ebrei. Chiunque controlla il Negev è in grado di dominare anche il Mar Morto.
In tale zona, posta a qualche centinaio di metri al di sotto del livello mare, si ritiene giacciono 40 miliardi di tonnellate di minerali potassio, bromuri, magnesio e fosfati. La sola disponibilità di potassio di questa zona sarebbe sufficiente per un secolo al fabbisogno mondiale. Ecco perchè due nomi fino a poco tempo fa quasi insignificanti, Akaba e Negev, sono ora all’ordine del giorno in tutte le cronache
Cap. 4
L’Osservatore Romano,
13 gennaio 1949, p. 4
Titoli: Acta Diurna. La situazione nel Medio Oriente. L’incontro a Rodi. La pace in Palestina. Valutazioni sul Medio Oriente. Una nota della Lega Araba. I trattati della Gran Bretagna. Egitto e Transgiordania. Gli interessi degli Stati Uniti e i loro rapporti. La politica delle «finestre aperte». La base di una soluzione positiva.
(G. L. B.). – È stato annunciato per oggi l’incontro a Rodi fra i rappresentanti egiziani ed ebrei promosso dal Mediatore interinale dell’O.N.U. in Palestina per cercar di concretare un armistizio fra le due parti in lotta. L’incontro è specialmente importante dopo che – nel cielo egiziano secondo Londra; in quello del Negeb, secondo Tel Aviv – sono stati abbattuti cinque aerei britannici in volo di ricognizione, e si è così profilata la minaccia di veder diventare l’azione ebraica il «caso» determinante di nuove complicazioni internazionali.
Sul piano diplomatico il «caso» non è stato ancora risolto, ma il fatto che sino ad ora esso non sia stato motivo di un appello al Consiglio per la sicurezza, dimostra almeno da parte britannica la volontà di non interferire con altre iniziative sulle conversazioni di Rodi. È un altro elemento che documenta l’importanza attribuita ad esse e conforta la speranza che ieri un commentatore di Radio Londra esprimeva dichiarando di essere convinto che, se pure la situazione del Medio Oriente è indubbiamente grave, tuttavia, ognuno avrebbe contribuito ad alleviarne la tensione e, pertanto, a superare la crisi.
Si rinnova, in altre parole, la convinzione palesata pochi giorni fa dal Segretario generale dell’O.N.U. nel corso di una conferenza stampa, quando ha asserito che la soluzione del problema palestinese sarebbe «più vicina che mai» e che il 1949 avrebbe portato la pace in questa travagliata regione. «Robusto ottimismo» ha scritto qualche commentatore, ma indubbiamente ottimismo necessario per continuare in un’opera così difficile e delicata, intorno a una questione che non ha significato soltanto per se stessa, ma che è grave di tanti più o meno confusi motivi e suscettibile di pericolosi sviluppi. È facile farne un quadro richiamando che cosa rappresenti il Medio Oriente nelle preoccupazioni economiche e strategiche oggi predominanti e la posizione che in esso vi occupa la Palestina.
Il Medio Oriente, si è ormai osservato tante volte, costituisce il punto di incontro di grandi masse continentali e il tratto di unione fra mari diversi. Inoltre la natura ha nascosto nel suo sottsuolo delle riserve potenziali di petrolio che lo pongono in primo piano fra le regioni petrolifere di tutto il mondo, ma che fanno anche convergere su di esso gli interessi delle grandi Potenze. Si tratta di un interesse destinato a diventar sempre più vivo man mano che lo sviluppo meccanico della nostra civiltà rende maggiormente indispensabile questa materia prima e le altre riserve che si conoscono in altre regioni vanno diminuendo le loro disponibilità.
Al centro geografico del Medio Oriente la Palestina occupa un posto geograficamente importantissimo, il cui ruolo è giudicato in funzione polemica nel contrasto che oggi presenta la situazione internazionale. Così, spiegava, ad esempio, il giornale comunista francese Humanité: «La Palestina interessa doppiamente gli imperialisti anglosassoni: in primo luogo perché la considerano come una posizione strategica essenziale per la guerra contro la Russia; in secondo luogo perché è lo sbocco .dei petroli del Medio Oriente più ricco del mondo». Ma questo prospettar di cose si capovolge nella interpretazione fatta dall’altra parte e di rimando si osserva - come osservava l’altro giorno il Daily Mail - che se la Russia, attraverso Israele, si assicurerà una forte posizione nel Medio Oriente «ne deriverà per l’Occidente una minaccia maggiore di quella che gli deriverebbe da una Cina dominata dal comunismo» Gli elementi strategici ed economici rimangono immutati: ciascuno accusa l’altro di volersene impossessare in considerazione degli utili che il possesso offre sul piano della reciproca lotta.
Su questo canovaccio si intessono i motivi su cui si sviluppa l’attuale situazione così ricca di intrecci, di intrecci contrastanti, di interferenze, e per i quali sarebbe troppo semplice esaurirla in questo contrasto o nel contrasto fra arabi ed ebrei. Questo ultimo, così come l’altro, è uno degli aspetti della situazione, ma non è tutta la situazione; né questo stesso contrasto si può esprimere completamente soltanto con tale opposizione di termini.
Nella situazione palestinese, difatti, abbiamo effettivamente arabi ed ebrei, ma già parlando di parte araba si usa un termine di riferimento se non impreciso per lo meno molto vago. Lo si constatava in alcuni circoli politici internazionali commentando la nota che il 5 scorso la Lega Araba inviava all’Irak e alla Transgiordania per ricordar loro gli impegni di solidarietà da essi assunti verso i «fratelli d’arme» egiziani e per precisare come la non-collaborazione avrebbe significato la dissoluzione della Lega. Indubbiamente si è nel riflesso di altri avvenimenti, di altre divergenti opinioni, quali quelle nutrite sul futuro della Palestina araba, che hanno già diviso il campo, ma – nel suo riferimento specifico a uno stato di fatto contingente – la nota, la cui risonanza nell’opinione pubblica mondiale è stata assai più limitata di quella suscitata dal profilarsi delle altre divergenze, ha finito per acquistare un significato più profondo. Del resto i commenti ad una tale prospettiva non sono mancati nella considerazione di quello che il conservatore Sunday Times definiva il «vuoto politico» che lo sfasciamento degli Stati arabi determinerebbe nel Medio Oriente.
In questa realtà nel conflitto arabo-ebraico interviene un altro aspetto non meno notevole della situazione: quello costituito dalla Gran Bretagna e dai rapporti di questa con gli Stati arabi.
A tale proposito il New York Times, riferendosi alla situazione determinatasi in seguito all’abbattimento dei 5 apparecchi della R.A.F. individuava in due motivi l’origine della posizione che Londra ha assunto dinanzi agli attuali sviluppi della situazione palestinese: la difesa dei complessi interessi che essa localizza nel Cnale di Suez, la riconquista della influenza che già Londra aveva nel Medio Oriente. Il giornale statunitense sviluppava il concetto in contrasto con i motivi che esso intravedeva nell’azione ebraica: «il desiderio di certi estremisti di impossessarsi di tutta la Palestina».
Su questa base e in funzione dei rapporti della Gran Bretagna con gli Stati arabi, si verrebbero, pertanto, a precisare i rapporti anglo-ebraici Tuttavia il Governo di Londra si trova di fronte a due diverse realtà espresse nella diversità di rapporti che corrono fra la Gran Bretagna e la Transgiordania da una parte, la Gran Bretagna e l’Egitto dall’altra. Un elemento giuridico, al di sopra di ogni speculazione polemica, può dare la misura di questa diversità.
La Gran Bretagna si ritiene impegnata con tutte e due queste Nazioni da trattati di mutua assistenza, quello con il Cairo che rimonta al 1936, quello con Amman perfezionato nel marzo dello scorso anno. È precisamente in forza di quest’ultimo che aderendo ad una richiesta della Transgiordania essa ha inviato le proprie truppe a presidiare Akaba, l’unico porto che questo Paese possiede nel Mar Rosso, quel porto nel quale – secondo alcune informazioni di stampa apparse nuovamente la fine dello scorso anno – dovrebbe terminare un nuovo canale congiungente il Mediterraneo con il Mar Rosso e, quindi, con l’Oceano Indiano. È in ordine al trattato con l’Egitto che gli aerei britannici che sono stati abbattuti sorvolavano il territorio egiziano. Ma l’Egitto, al contrario della Transgiordania, lungi dal richiamarsi a questo trattato, lo considera scaduto, non più valido. Anzi, osservava un giornale svizzero qualche giorno fa, l’invocare questo patto per la propria integrità territoriale riuscirebbe per l’Egitto una gravosa umiliazione. Difatti la situazione del Negeb era presa in considerazione dalla stampa egiziana come elemento probante contro l’argomento fondamentale avanzato dai negoziatori britannici affermanti che le forze inglesi nella zona del Canale erano necessarie per la protezione di questo.
Mentre gli osservatori commentano variamente gli sviluppi della situazione nel Medio Oriente in funzione di questa diversità dei rapporti che intercorrono fra le Nazioni arabe e la Gran Bretagna, parallelamente a questi vengono osservando le relazioni che in funzione della Palestina e del Medio Oriente intercorrono altresì fra Londra e Washington, fra Washington e gli Stati arabi. Difatti, innegabilmente gli Stati Uniti hanno visto costituirsi in questa regione dei ben precisi interessi, né – oltre tutto – la posizione che essi sono venuti ad acquistare sul piano internazionale li può rendere indifferenti agli avvenimenti che si registrano in questa zona ritenuta nevralgica. Un giornale americano scriveva qualche tempo fa come «il problema della Palestina stabilirà la sorte dei Paesi arabi per un futuro di almeno cinquant’anni» e la frase, che ha avuto eco sulla stampa araba, ha avuto nei commenti l’inquadratura conseguente alla posizione che questi Paesi rappresentano nel Medio Oriente.
Un tale insieme di rapporti finisce per costituire il quarto aspetto, sotto cui si può considerare la questione palestinese, ed è un aspetto tanto più delicato quanto, si è osservato, su questo elemento non sono mancati i tentativi per creare una frattura nei rapporti anglo-americani, risultato, a sua volta, tanto più grave quanto un atteggiamento comune delle due Nazioni nei confronti del Medio Oriente viene sottolineato dalla constatazione che il petrolio mediorientale costituisce un fattore importante della ricostruzione economica europea.
Questo complesso di rapporti, il quale per le conseguenze che può originare, non è più racchiuso nel limite geografico del Medio Oriente, ripropone un’altra volta lo sviluppo del contrasto fra l’Oriente e l’Occidente. Ad esempio l’I.N.S. asseriva la scorsa settimana di aver appreso negli ambienti sovietici di Vienna che la Russia si riprometterebbe di sollevare la questione della internazionalizzazione del Canale di Suez, prendendo pretesto dalle ultime vicende. A sua volta il redattore diplomatico del London Evening News annunciava l’arrivo al Cairo di una delegazione sovietica che dovrebbe negoziare una convenzione russo-egiziana per l’aviazione civile simile a quella che l’Egitto ha con gli Stati Uniti, iniziativa, che, egli scrive, mentre da una parte indica l’intenzione di Mosca di istituire aviolinee per l’Africa e l’Oceano Indiano, dall’altra mostrerebbe che «il Governo sovietico intende mettere alla prova la neutralità dell’Egitto fra le grandi Potenze». In questa situazione, difatti, l’URSS svilupperebbe quella che Le Progrès Egyptien chiama la «politica delle finestre» per rilevare che a Mosca, a tutt’oggi, manca solo una finestra sul Mediterraneo, e che, qualunque possa essere l’importanza da attribuirsi ai vari indici che si vengono denunciando, il tentativo è tradizionalmente insito nell’azione che essa, sotto tutti i regimi, ha cercato di portare a termine.
Su questo elemento si ripete spesso la nota di allarme e si cerca di sfruttarla in funzione degli interessi delle singole parti. In realtà il problema non può avere soluzione su dei fattori negativi che tutti si augurano di veder eliminati. La soluzione si può trovare, in senso veramente risolutivo, solo potenziando i fattori di giustizia, di interesse comune che sono effettivamente le basi di una vera pace.
(G. L. B.). – È stato annunciato per oggi l’incontro a Rodi fra i rappresentanti egiziani ed ebrei promosso dal Mediatore interinale dell’O.N.U. in Palestina per cercar di concretare un armistizio fra le due parti in lotta. L’incontro è specialmente importante dopo che – nel cielo egiziano secondo Londra; in quello del Negeb, secondo Tel Aviv – sono stati abbattuti cinque aerei britannici in volo di ricognizione, e si è così profilata la minaccia di veder diventare l’azione ebraica il «caso» determinante di nuove complicazioni internazionali.
Sul piano diplomatico il «caso» non è stato ancora risolto, ma il fatto che sino ad ora esso non sia stato motivo di un appello al Consiglio per la sicurezza, dimostra almeno da parte britannica la volontà di non interferire con altre iniziative sulle conversazioni di Rodi. È un altro elemento che documenta l’importanza attribuita ad esse e conforta la speranza che ieri un commentatore di Radio Londra esprimeva dichiarando di essere convinto che, se pure la situazione del Medio Oriente è indubbiamente grave, tuttavia, ognuno avrebbe contribuito ad alleviarne la tensione e, pertanto, a superare la crisi.
Si rinnova, in altre parole, la convinzione palesata pochi giorni fa dal Segretario generale dell’O.N.U. nel corso di una conferenza stampa, quando ha asserito che la soluzione del problema palestinese sarebbe «più vicina che mai» e che il 1949 avrebbe portato la pace in questa travagliata regione. «Robusto ottimismo» ha scritto qualche commentatore, ma indubbiamente ottimismo necessario per continuare in un’opera così difficile e delicata, intorno a una questione che non ha significato soltanto per se stessa, ma che è grave di tanti più o meno confusi motivi e suscettibile di pericolosi sviluppi. È facile farne un quadro richiamando che cosa rappresenti il Medio Oriente nelle preoccupazioni economiche e strategiche oggi predominanti e la posizione che in esso vi occupa la Palestina.
Il Medio Oriente, si è ormai osservato tante volte, costituisce il punto di incontro di grandi masse continentali e il tratto di unione fra mari diversi. Inoltre la natura ha nascosto nel suo sottsuolo delle riserve potenziali di petrolio che lo pongono in primo piano fra le regioni petrolifere di tutto il mondo, ma che fanno anche convergere su di esso gli interessi delle grandi Potenze. Si tratta di un interesse destinato a diventar sempre più vivo man mano che lo sviluppo meccanico della nostra civiltà rende maggiormente indispensabile questa materia prima e le altre riserve che si conoscono in altre regioni vanno diminuendo le loro disponibilità.
Al centro geografico del Medio Oriente la Palestina occupa un posto geograficamente importantissimo, il cui ruolo è giudicato in funzione polemica nel contrasto che oggi presenta la situazione internazionale. Così, spiegava, ad esempio, il giornale comunista francese Humanité: «La Palestina interessa doppiamente gli imperialisti anglosassoni: in primo luogo perché la considerano come una posizione strategica essenziale per la guerra contro la Russia; in secondo luogo perché è lo sbocco .dei petroli del Medio Oriente più ricco del mondo». Ma questo prospettar di cose si capovolge nella interpretazione fatta dall’altra parte e di rimando si osserva - come osservava l’altro giorno il Daily Mail - che se la Russia, attraverso Israele, si assicurerà una forte posizione nel Medio Oriente «ne deriverà per l’Occidente una minaccia maggiore di quella che gli deriverebbe da una Cina dominata dal comunismo» Gli elementi strategici ed economici rimangono immutati: ciascuno accusa l’altro di volersene impossessare in considerazione degli utili che il possesso offre sul piano della reciproca lotta.
Su questo canovaccio si intessono i motivi su cui si sviluppa l’attuale situazione così ricca di intrecci, di intrecci contrastanti, di interferenze, e per i quali sarebbe troppo semplice esaurirla in questo contrasto o nel contrasto fra arabi ed ebrei. Questo ultimo, così come l’altro, è uno degli aspetti della situazione, ma non è tutta la situazione; né questo stesso contrasto si può esprimere completamente soltanto con tale opposizione di termini.
Nella situazione palestinese, difatti, abbiamo effettivamente arabi ed ebrei, ma già parlando di parte araba si usa un termine di riferimento se non impreciso per lo meno molto vago. Lo si constatava in alcuni circoli politici internazionali commentando la nota che il 5 scorso la Lega Araba inviava all’Irak e alla Transgiordania per ricordar loro gli impegni di solidarietà da essi assunti verso i «fratelli d’arme» egiziani e per precisare come la non-collaborazione avrebbe significato la dissoluzione della Lega. Indubbiamente si è nel riflesso di altri avvenimenti, di altre divergenti opinioni, quali quelle nutrite sul futuro della Palestina araba, che hanno già diviso il campo, ma – nel suo riferimento specifico a uno stato di fatto contingente – la nota, la cui risonanza nell’opinione pubblica mondiale è stata assai più limitata di quella suscitata dal profilarsi delle altre divergenze, ha finito per acquistare un significato più profondo. Del resto i commenti ad una tale prospettiva non sono mancati nella considerazione di quello che il conservatore Sunday Times definiva il «vuoto politico» che lo sfasciamento degli Stati arabi determinerebbe nel Medio Oriente.
In questa realtà nel conflitto arabo-ebraico interviene un altro aspetto non meno notevole della situazione: quello costituito dalla Gran Bretagna e dai rapporti di questa con gli Stati arabi.
A tale proposito il New York Times, riferendosi alla situazione determinatasi in seguito all’abbattimento dei 5 apparecchi della R.A.F. individuava in due motivi l’origine della posizione che Londra ha assunto dinanzi agli attuali sviluppi della situazione palestinese: la difesa dei complessi interessi che essa localizza nel Cnale di Suez, la riconquista della influenza che già Londra aveva nel Medio Oriente. Il giornale statunitense sviluppava il concetto in contrasto con i motivi che esso intravedeva nell’azione ebraica: «il desiderio di certi estremisti di impossessarsi di tutta la Palestina».
Su questa base e in funzione dei rapporti della Gran Bretagna con gli Stati arabi, si verrebbero, pertanto, a precisare i rapporti anglo-ebraici Tuttavia il Governo di Londra si trova di fronte a due diverse realtà espresse nella diversità di rapporti che corrono fra la Gran Bretagna e la Transgiordania da una parte, la Gran Bretagna e l’Egitto dall’altra. Un elemento giuridico, al di sopra di ogni speculazione polemica, può dare la misura di questa diversità.
La Gran Bretagna si ritiene impegnata con tutte e due queste Nazioni da trattati di mutua assistenza, quello con il Cairo che rimonta al 1936, quello con Amman perfezionato nel marzo dello scorso anno. È precisamente in forza di quest’ultimo che aderendo ad una richiesta della Transgiordania essa ha inviato le proprie truppe a presidiare Akaba, l’unico porto che questo Paese possiede nel Mar Rosso, quel porto nel quale – secondo alcune informazioni di stampa apparse nuovamente la fine dello scorso anno – dovrebbe terminare un nuovo canale congiungente il Mediterraneo con il Mar Rosso e, quindi, con l’Oceano Indiano. È in ordine al trattato con l’Egitto che gli aerei britannici che sono stati abbattuti sorvolavano il territorio egiziano. Ma l’Egitto, al contrario della Transgiordania, lungi dal richiamarsi a questo trattato, lo considera scaduto, non più valido. Anzi, osservava un giornale svizzero qualche giorno fa, l’invocare questo patto per la propria integrità territoriale riuscirebbe per l’Egitto una gravosa umiliazione. Difatti la situazione del Negeb era presa in considerazione dalla stampa egiziana come elemento probante contro l’argomento fondamentale avanzato dai negoziatori britannici affermanti che le forze inglesi nella zona del Canale erano necessarie per la protezione di questo.
Mentre gli osservatori commentano variamente gli sviluppi della situazione nel Medio Oriente in funzione di questa diversità dei rapporti che intercorrono fra le Nazioni arabe e la Gran Bretagna, parallelamente a questi vengono osservando le relazioni che in funzione della Palestina e del Medio Oriente intercorrono altresì fra Londra e Washington, fra Washington e gli Stati arabi. Difatti, innegabilmente gli Stati Uniti hanno visto costituirsi in questa regione dei ben precisi interessi, né – oltre tutto – la posizione che essi sono venuti ad acquistare sul piano internazionale li può rendere indifferenti agli avvenimenti che si registrano in questa zona ritenuta nevralgica. Un giornale americano scriveva qualche tempo fa come «il problema della Palestina stabilirà la sorte dei Paesi arabi per un futuro di almeno cinquant’anni» e la frase, che ha avuto eco sulla stampa araba, ha avuto nei commenti l’inquadratura conseguente alla posizione che questi Paesi rappresentano nel Medio Oriente.
Un tale insieme di rapporti finisce per costituire il quarto aspetto, sotto cui si può considerare la questione palestinese, ed è un aspetto tanto più delicato quanto, si è osservato, su questo elemento non sono mancati i tentativi per creare una frattura nei rapporti anglo-americani, risultato, a sua volta, tanto più grave quanto un atteggiamento comune delle due Nazioni nei confronti del Medio Oriente viene sottolineato dalla constatazione che il petrolio mediorientale costituisce un fattore importante della ricostruzione economica europea.
Questo complesso di rapporti, il quale per le conseguenze che può originare, non è più racchiuso nel limite geografico del Medio Oriente, ripropone un’altra volta lo sviluppo del contrasto fra l’Oriente e l’Occidente. Ad esempio l’I.N.S. asseriva la scorsa settimana di aver appreso negli ambienti sovietici di Vienna che la Russia si riprometterebbe di sollevare la questione della internazionalizzazione del Canale di Suez, prendendo pretesto dalle ultime vicende. A sua volta il redattore diplomatico del London Evening News annunciava l’arrivo al Cairo di una delegazione sovietica che dovrebbe negoziare una convenzione russo-egiziana per l’aviazione civile simile a quella che l’Egitto ha con gli Stati Uniti, iniziativa, che, egli scrive, mentre da una parte indica l’intenzione di Mosca di istituire aviolinee per l’Africa e l’Oceano Indiano, dall’altra mostrerebbe che «il Governo sovietico intende mettere alla prova la neutralità dell’Egitto fra le grandi Potenze». In questa situazione, difatti, l’URSS svilupperebbe quella che Le Progrès Egyptien chiama la «politica delle finestre» per rilevare che a Mosca, a tutt’oggi, manca solo una finestra sul Mediterraneo, e che, qualunque possa essere l’importanza da attribuirsi ai vari indici che si vengono denunciando, il tentativo è tradizionalmente insito nell’azione che essa, sotto tutti i regimi, ha cercato di portare a termine.
Su questo elemento si ripete spesso la nota di allarme e si cerca di sfruttarla in funzione degli interessi delle singole parti. In realtà il problema non può avere soluzione su dei fattori negativi che tutti si augurano di veder eliminati. La soluzione si può trovare, in senso veramente risolutivo, solo potenziando i fattori di giustizia, di interesse comune che sono effettivamente le basi di una vera pace.
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