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Sommario: 1. Lloyd George: La Palestina ed i Sionisti. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1923. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1923.
Mentre valgono le considerazioni generali già fatte per le precedenti fonti documentarie, e cioè: Vedi Elenco Numerico, pare
qui opportuno rilevare ogni volta la casualità e imparzialità con
la quale le diverse fonti si aggiungono le une alle altre, animati da
una pretesa di completezza, che sappiamo difficile da raggiungere. Il quotidiano “La
Stampa”, fondato nel 1867, rende disponibile il suo archivio storico
dal 1867 al 2006. Valgono i criteri generali enunciati in precedenza e
adattati ogni volta alla specificità della nuova fonte. Assumendo
come anno di partenza il 1921 seguiamo un metodo sincronico,
raccordandolo con quello diacronico basato su alcuni anni di
riferimento.
Anno inizio spoglio: 1921. |
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1923. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1923.
Lloyd George: La Palestina ed i Sionisti
La Stampa, mattino
Anno LVII, n. 168
Anno LVII, n. 168
sabato, p. 3
14 luglio 1923
Fra tutte le pinzoccherie che inferociscono il cuore umano, nessuna è più stupida che l’anti-semitismo. Non si fonda sulla ragione, non si radica nella fede, non aspira a un ideale; è soltanto una di quelle putrescenti, maligne erbacce che crescono nella palude dell’odio di razza. Quanto spoglio di ragione sia l’antisemitismo traspare dalla constatazione che esso alligna quasi nelle sole nazioni che adorano i profeti e gli apostoli d’Israele, che coprono di reverenza la letteratura nazionale degli ebrei come il solo ispirato messaggio trasmesso dalla Deità al genere umano, e la cui unica speranza di salvazione risiede nei precetti e nello promesse dei grandi maestri di Giudea. Pure, agli occhi di questi fanatici, nulla di giusto possono fare gli israeliti d’oggi. Ricchi, sono uccelli da preda; poveri, sono pidocchi. Se appoggiano una guerra, è perché vogliono sfruttare a proprio vantaggio le faide dei cristiani. Se invece si manifestano ansiosi per la pace, sono dei codardi, nati o dei traditori. Quando prodigano danaro (e non esistono oblatori più generosi che gli ebrei), essi fan questo per qualche loro oscuro fine egoistico. Quando al contrario non danno niente, — che cosa c’è da aspettarsi, da un ebreo?
Se il lavoro è oppresso da ipertrofia di capitale, la colpa ne viene rovesciata sulla cupidigia degli ebrei. Se il lavoro, come fece in Russia, insorge contro il capitale, anche di questo gli ebrei vengono incolpati. Se l’israelita vive in terra straniera, bisogna snidamelo con le persecuzioni e i «pogrom». Se vuol far ritorno alla terra sua, bisogna impedirglielo. Attraverso i secoli, in ogni paese, — qualunque cosa abbia fatto, inteso fare, o mancato di fare, — egli è stato perseguito dall’eco del brutale grido della marmaglia di Gerusalemme contro il più grande di tutti i giudei «Crocifiggetelo!». Nulla di buono è mai sortito alle nazioni che crocifissero ebrei. È un ben misero e pusillanime sport, cotesto: spoglio di ogni autentica virtù virile. Coloro che vi si abbandonano sarebbero i primi a scappare se esso coinvolgesse elementi di rischio. I persecutori di ebrei appartengono in generale a quel tipo di cittadini, che seppe trovare buone ragioni per evadere il servizio militare quando la patria era in pericolo.
L’ultimo esempio di questa miserabile passione si coglie nell’agitazione contro l’insediamento colonico di ebrei poveri nella terra resa famosa dai loro padri. La Palestina, quando era retta dagli israeliti, sostentava una popolazione di cinque milioni d’anime. Sotto il devastante reggimento del turco, ne sostentava a malapena settecento mila. Il paese opimo di latte e di miele è ora in gran parte ridotto a un sassoso, sinistro deserto. Basta citare uno dei più abili e chiaroveggenti uomini d’affari che esistano: «È una terra d'immense possibilità, ad onta dello stato terribilmente negletto in cui il malgoverno turco ha precipitato le sue risorse naturali. È un meraviglioso fondo lasciato deperire da secoli di noncuranza. I turchi tagliarono le foreste e giammai si dettero la briga di ripiantarle. Essi macellarono il bestiame, e giammai si curarono di rinnovarlo». E una delle peculiarità del cacciatore d’ebrei è che egli, invece, adora il turco.
Se la Palestina dev’essere ricondotta a condizioni che soltanto si approssimino alla sua prosperità antica, ciò non può ottenersi se non riconducendo gli ebrei al suo suolo. Secoli della più guastatrice oppressione che si ricordi hanno ridotto quella terra a tale aridità, che può rifarla florida soltanto una razza la quale, per ragioni di sentimento, sia pronta alle fatiche e ai lunghi sacrifici che sono necessari.
Qual è la storia vera del riavviamento degli ebrei alla Palestina? Non s’iniziò con la famosa dichiarazione di Balfour, durante la guerra. Un secolo fa, laggiù, risiedevano a malapena diecimila israeliti. Prima della guerra, ve n’erano centomila. La guerra ha considerovolmente diminuito questo totale, e l’immigrazione svoltasi dal 1918 in poi ha scarsamente colmato i vuoti. Molti anni ci vorranno, alla stregua del timoroso processo d’accrescimento che sta svolgendosi, perché il totale giunga a duecento mila. La ripresa della colonizzazione ebrea si aperse, praticamente, settant’anni fa. S’inaugurò con l’esperimento di Sir Moses Montefiore nel 1854, — un altro anno di guerra. Ottime ragioni aveva allora il Sultano, come gli Alleati nel 1917, di propiziarsi gli ebrei. E così principiò il ritorno degli israeliti in Palestina.
È proseguito, da quei giorni, lento ma costante. I terreni disponibili non eran certo dei migliori. Si dovettero affrontare pregiudizi e paure. Occorreva evitare con cura ogni atto che potesse far pensare ad una espropriazione in massa dei coltivatori arabi, anche ricompensandoli subito in contanti. Spesso, quindi, gli ebrei si trovarono costretti a piantare i penati su aride dune sabbiose e in paludi malariche. Non vi è di meglio, per descriverne l’esito, che citare un brano d’articolo scritto dalla famosa condottiero femminista, la signora Fawcett. Essa visitò la Palestina nel 1921, vi tornò un anno dopo, ed ecco che cosa dice delle colonie ebree:
«Lungi dal prosciugare il paese delle sue risorse, le colonie hanno saputo crearvene delle nuove, sino allora inesistenti. I coloni hanno fatto piantagioni su sabbie desertiche, coltivandole con estrema diligenza, hanno convertito quelle sabbie in fruttifere vigne e in aranceti. In alcune località, hanno i coloni trasformato in fertili terreni agricoli delle distese paludose che non producevano se non malaria e altri contagi. I coloni non arretrarono davanti alle tremende fatiche e ai gravi sacrifici ch’erano richiesti. Molti fra i primi arrivati lasciarono le ossa sulla vanga; i superstiti tirarono innanzi con coraggio, bonificando e piantando eucalipti a centinaia di migliaia, fino a che la palude si mutò in un giardino, e il deserto si ricoperse di fiori come una rosa».
In ogni località, il coltivatore ebreo ottiene raccolti più pingui e di miglior qualità che il suo vicino arabo. Egli ha introdotto in Palestina più scientifici sistemi di coltivazione, e il suo esempio è di benefico effetto sui metodi primitivi del contadino arabo. Lungo tempo dovrà trascorrere perché quella di Canaan torni ad essere una terra irrorata di latte e di miele. Non basta emanare una Dichiarazione per cancellare i lasciti di secoli d’ignavia e malgoverno. Il taglio degli alberi ha tolta al suolo ogni protezione contro le grandi piogge, e il pietrame che una volta verzicava di vigne e d’oliveti è emerso scotennato a fior di terra. Poche generazioni di stupidità turca hanno distrutto le terrazze che intiere epoche di paziente industria avevano costruite. Esse non possono venir ricostruite in una sola generazione. Vaste opere d’irrigazione devono essere allestite se la colonizzazione deve proseguire su scala soddisfacente.
Sotto diversi aspetti, per il colonizzatore moderno, la Palestina possiede vantaggi, che invece tornavano a detrimento dei suoi antichi abitatori. La corrente del suo unico fiume importante e dei suoi tributari è molto rapida, e include altresì una grande cascata. Eccellente, il tutto, per derivarne forza idraulica. Così a scopo d’irrigazione, come per l’impianto di nuove industrie, questo dono naturale si presta a sfruttamenti ch’erano impraticabili prima delle scoperte scientifiche dell’ultimo secolo. La media delle piogge sull’altipiano di Giudea è così considerevole che quest’acqua, raccolta in serbatoi bene situati, basterebbe a trasformare il «deserto di Giudea» in un giardino. La prosperità che ne deriverebbe andrebbe condivisa tra gli arabi e gli ebrei.
Pochi paesi al mondo hanno saputo mettere a minor frutto le loro virtuali risorse. Pensate alle speciali attrazioni che la Palestina offre ai turisti. È stupefacente constatare che i visitatori di Palestina, in un intiero anno, non superano i 15.000. Il paese contiene i più famosi tabernacoli ch’esistano. La sua storia è del più assorbente interesse per i più ricchi popoli della terra, ed è meglio insegnata, ai loro figliuoli, di quella del loro stesso paese. Innumerevoli milioni di uomini conoscono più lucidamente alcuni dei suoi più piccoli villaggi che molto prospere città moderne. I visitatori di questa sacra terra dovrebbero ascendere, ogni anno, a centinaia di migliaia. Perché non è così? La risposta è che il malgoverno turco mise in fuga il pellegrino. Quelli che andarono in Terra Santa ne tornarono disillusi e disgustati. Le moderne «spie», al loro ritorno, non portarono seco i pingui grappoli d’Escol ad accendere nelle moltitudini il desiderio d’imitare il loro esempio. Essi recarono a casa deprimenti racconti di squallore, d’assenza di ogni comodità, e di esazioni, che dissiparono le visioni e scoraggiarono altri pellegrinaggi. Un Governo costituito offre ora alla Terra Santa la prima occasione ch’essa abbia avuta in 1900 anni. Sennonché, la attenzione della civiltà è richiamata da tanti altri paesi ancora da sviluppare, che la Palestina perderà questa grande occasione, a meno che non si trovi affidata in modo speciale a qualche custode capace di poderose influenze. I soli israeliti possono redimerla dalla devastazione e restituirle la gloria d’un tempo.
Questa tutela non implica ingiustizia verso le altre razze. Agli arabi mancano i mezzi, l’energia, l’ambizione necessari ad assolvere il compito. Troppi pesi ha già sulle spalle l’Impero Britannico per addossarsi anche quello della riuscita di questo esperimento. Soltanto la razza ebraica, con il suo genio, le sue risorse, la sua tenacia, e, cosa di non minor conto, la sua ricchezza, è in grado di adempire questo compito essenziale. La Dichiarazione di Balfour non è un atto d’espropriazione, bensì d’abilitazione. Per gli ebrei, essa non è che uno statuto d’eguaglianza. Eccone i termini:
«Il Governo britannico considera con favore l’istituzione in Palestina di un home nazionale per il popolo ebraico, e farà del suo meglio per agevolare il raggiungimento di questo fine, intendendosi bene che nulla verrà fatto che possa recar pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, nè ai diritti e allo status politico che gl’israeliti godono in qualsiasi altro paese».
La Dichiarazione venne in seguito sottoscritta e adottata dal Presidente Wilson e dai Ministri degli esteri di Francia e d’Italia.
I sionisti non chiedono di più. I loro nemici hanno insinuato ch’essi tentano di stabilire in Palestina un’oligarchia che ridurrà la popolazione araba in uno stato di servitù sotto una minoranza ebraica favorita. La replica migliore si trova nel «Memorandum» presentato dall’Associazione Sionistica alla Lega delle Nazioni.
«Gli ebrei non reclamano privilegio alcuno, all’infuori di quello di ricostruire, con gli sforzi e i sacrifici loro, una contrada la quale, già sede di una laboriosa e produttiva civilizzazione, è stata per lungo tempo lasciata in preda alla derelizione. Essi non si attendono trattamento di favore in materia di diritti politici e religiosi. Presumono piuttosto, in linea di fatto, che tutti gli abitanti di Palestina, ebrei o non-ebrei, si troveranno per ogni rispetto sopra un piede di perfetta eguaglianza. Essi non mirano a procurarsi ingerenza alcuna nel Governo, all’infuori di quella a cui potranno essere autorizzati dalla Costituzione quali cittadini del paese. Essi non sollecitano favori. In breve, non domandano se non la garantita possibilità di costruire, in pace, con la loro attività, il loro home nazionale, e di aver successo alla stregua dei meriti loro».
Non è modesta la domanda che questi esuli da Sionne presentano alle nazioni? E certamente è giusto che sia soddisfatta, epperò mandata ad effetto alla maniera in cui gli uomini d’onore assolvono i loro impegni. Si contano, nel mondo, 14 milioni di ebrei. Essi appartengono a una stirpe che per almeno 1900 anni è stata assoggettata a proscrizioni, saccheggi, massacri, e di tormenti di una derisione senza fine, — una stirpe la quale ha sopportato una persecuzione tale da non trovar riscontro nella storia di alcun altro popolo, per la varietà dei supplizi fisici materiali e morali inflitti alle sue vittime, per la virulenza e la malignità con cui è stata portata innanzi, per il tempo che durò, e, soprattutto, per la forza d’animo e la pazienza con cui venne sopportata.
È dunque eccessivo chiedere che i più diseredati e perseguitati fra gli ebrei possano trovare asilo nella terra che i loro padri santificarono con lo splendore del loro genio, la elevatezza dei loro pensieri, la consacrazione della loro vita, e l’ispirazione del loro messaggio all’umanità?
LLOYD GEORGE
(Copyright della «United Press Association of America» in tutti i Paesi, ad eccezione dell’Inghilterra: riproduzione totale o parziale assolutamente vietata).
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