Homepage Q. S.
La Stampa:
1882 - 1883 - 1884 - 1885 - 1886 - 1887 - 1888- 1889 - 1890 - 1891-
1892 - 1893 - 1894 - 1895 - 1896 - 1897 - 1898 - 1899 - 1900 - 1901 -
1902 - 1903 - 1904 - 1905 - 1906 - 1907 - 1908 - 1909 - 1910 - 1911 -
1912 - 1913 - 1914 - 1915 - 1916 -1917 - 1918 - 1919 - 1920 - 1921
- 1922 - 1923 - 1924 - 1925 - 1926 - 1927 - 1928 - 1929 - 1930 -
1931 - 1932 - 1933 - 1934 - 1935 - 1936 - 1937 - 1938 - 1939 -
1940 - 1941 - 1942 - 1943 - 1944 - 1945 - 1946 - 1947
- 1948 - 1949 - 1950 - 1951 - 1952 - 1953 - 1954 - 1955 - 1956 - 1957 -
1958 - 1959 - 1960 - 1961 - 1962 - 1963 - 1964 - 1965 - 1966 - 1967 -
1968 - 1969 - 1970 - 1971 - 1972 - 1973 - 1974 - 1975 - 1976 - 1977 -
1978 - 1979 - 1980 - 1981 - 1982 - 1983 - 1984 - 1985 - 1986 - 1987 -
1988 - 1989 - 1990 - 1991 - 1992 - 1993 - 1994 - 1995 - 1996 - 1997 -
1998 - 1999 - 2000 - 2001 - 2002 - 2003 - 2004 - 2005 - 2006.
Sommario: 1. L’Ebreo Errante s’è arrestato? – 2. Fantastica odissea di un ex-Combattente. – 3. I nuovi Maccabei. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1933. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1933.
Mentre valgono le considerazioni generali già fatte per le precedenti fonti documentarie, e cioè: Vedi Elenco Numerico, pare
qui opportuno rilevare ogni volta la casualità e imparzialità con
la quale le diverse fonti si aggiungono le une alle altre, animati da
una pretesa di completezza, che sappiamo difficile da raggiungere. Il quotidiano “La
Stampa”, fondato nel 1867, rende disponibile il suo archivio storico
dal 1867 al 2006. Valgono i criteri generali enunciati in precedenza e
adattati ogni volta alla specificità della nuova fonte. Assumendo
come anno di partenza il 1921 seguiamo un metodo sincronico,
raccordandolo con quello diacronico basato su alcuni anni di
riferimento.
Anno inizio spoglio: 1921. |
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1933. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1933.
L’Ebreo Errante s’è arrestato?
La Stampa,
domenica, p. 3
29 gennaio 1933
Titoli: Palestina antica e nuova. L’Ebreo Errante s’è arrestato?
(Dal nostro inviato speciale).
Giaffa, gennaio.
Cos’è il Sionismo? Quando, oltre venti anni dopo la pubblicazione del famoso libro di Teodoro Herzl, Der Judenstaat, la dichiarazione Balfour del 2 novembre 1917 fece battere il cuore di speranza e d’orgoglio a milioni d’ebrei sparsi pel mondo, e con l’armistizio e il mandato britannico l’immigrazione ebraica in Palestina diventò un fenomeno bizzarro e grandioso, corse per l’Europa un motto che si disse inventato dal sovrano d’una nazione certo non molto tenera per i figli di Israello: «Sionismo significa un ebreo che ne paga un altro perché quest’altro vada ad abitare in Gerusalemme». La barzelletta ebbe gran fortuna perché è strano come uno dei popoli meno allegri che mai siano comparsi sulla terra, da tempo immemorabile serva viceversa da bersaglio prediletto a tutti gli umoristi.
Dovette sorridere anche il vecchio barone Edmondo Rothschild, ch’era poi quello che pagava più di tutti, accontentandosi come Mosé di additar da lungi ai fratelli la Terra Promessa, con l’unica differenza che invece d’essere sul Monte Nebo in procinto di rendere l’anima a Dio se ne stava assai meno perigliosamente nei suoi palazzi oppure nei suoi uffici di Parigi. Nessuno, del resto, gli avrebbe chiesto di riattraversare il deserto a capo delle turbe, di far tremare le mura di Gerico con lo squillo delle trombe, e di varcare il Giordano per ricostruire la Città di Davide. Colassero semplicemente i suoi milioni, indispensabili ad acquistar dagli arabi i «paschi d’Engaddi e di Saron». E con i suoi quelli d’altri potenti, per quel superbo e formidabile spirito di solidarietà che oltre i mari, i monti, i deserti lega l’ebreo al suo correligionario.
Dopo quel capolavoro di furba indeterminatezza ch’era stata la dichiarazione Balfour: «Il Governo della Sua Maestà Britannica considera favorevolmente lo stabilirsi in Palestina d’un Focolare nazionale per il popolo ebraico, e compirà tutti i suoi sforzi per facilitare il realizzarsi di questo progetto, sempre restando inteso che nulla sarà fatto che possa portar pregiudizio ai diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche esistenti in Palestina, nè ai diritti e alla situazione politica di cui godono gli ebrei in tutti gli altri paesi»; dopo il riconoscimento della dichiarazione da parte della Francia e la ratifica a San Remo nel 1920 del Consiglio Supremo degli Alleati, ed infine la delega della Società delle Nazioni, nel 1922, del mandato palestinese all’Inghilterra (ed è commovente che tanti valentuomini si siano accordati per lasciar sospesa a mezz’aria — proprio come la pietra di Maometto sotto la volta della moschea di Omar — una concessione che non specificava nulla); non era evidentemente il caso che venisse un nuovo Giosuè ad impugnare le armi per la riconquista della Palestina.
Bastava adesso da un lato l’oro dei banchieri, dall’altro la miseria materiale e spirituale degli ebrei di Russia, di Polonia, in genere dell’Europa Orientale, e finalmente il lievito di un entusiasmo improvviso, di un orgoglio che si ridestava dopo tante umiliazioni secolari. Il motto di spirito di quel sovrano potè quindi circolare, e trovar credito.
Kéren Kayémeth
Mentre l’Europa dunque sorrideva (è un vecchio vizio dell’Europa sorridere di ciò che matura oltre i suoi confini), e nelle cassettine di latta azzurra del Kéren Kayémeth le-Israèl (cioè l’istituzione, del 1901, per la creazione di un «patrimonio intangibile del popolo ebraico destinato esclusivamente all’acquisto di terreni in Palestina e in Siria», e da non confondersi perciò col Kéren Hajesòd, o Fondo di Ricostruzione, creato nel 1920 durante la prima Conferenza sionistica del dopo-guerra a Londra, quale spina dorsale della finanza della sede nazionale ebraica, del «national Home» di Balfour) in questi caratteristici salvadanai appesi in ogni casa di sionista d’ogni parte del mondo piovevano più fitti e generosi gli oboli della speranza, in Palestina le statistiche segnavano cifre impressionanti.
Non sarà inopportuno ricordare – a titolo di semplice riferimento – che a metà del secolo XVIII esistevano in tutto il mondo tre milioni di ebrei; nel 1910 dodici; e che attualmente se ne hanno diciassette di cui undici in Europa, quattro e mezzo in America, 800.000 in Asia, 500.000 in Africa, 25.000 in Oceania (l’Italia ne conta 56.400). L’Ebreo errante è prolifico nelle sue soste, tolti quei bizzarri Samaritani di Nablus, ridotti ormai a circa centocinquanta, che per essere custodi del venerato Pentateuco da tremila anni e dei più antichi riti d’Israello, vivono isolati nella loro chiusura di casta già un tempo maledetta, e adagio si estinguono per mancanza di donne, disperatamente tesi dall’ossessione sessuale che una volta li fece trasalire di gioia per l’inaspettato arrivo d’una prostituta a Tel Aviv. Ma la prolificità non c’entra con la Palestina. Se gli ebrei di questa terra, che a metà del secolo scorso erano poco più di dodicimila, salivano nel 1922 a 83.794, nel 1926 a circa 158.000, per raggiungere nel 1931 il numero di 175.000 (su una popolazione totale di 1.035.154), ciò era dovuto semplicemente all’appello alla «national Home», alla grande illusione creata da Balfour. Dopo diciannove secoli che la nazione ebraica era politicamente morta, che sui ruderi fumanti del Tempio distrutto da Tito era stata gettata l’eredità di Davide, la diaspora trovava la sua rivendicazione. I settecento giovani trascinati in catene da Gerusalemme a Roma intorno al trionfo dell’Imperatore risorgevano dal tempo, e il decrepito Ahasvero, deposto il bastone, sedeva sulla petraia di Monte Scopus a contemplare la rovina lasciata dai padri dispersi.
La conquista della terra
Terrificante rovina: deserto, palude, malaria. Dov’era la terra di latte e di miele descritta dalla Bibbia? Potevano forse bastare le poche, e non molto ricche, più vecchie colonie – Richòn-le-Ziòn, Rehovòth, Mikvèh Israèl, Pétach-Tikàh, Zichròn Jeacòv e vie dicendo – e le altre più recenti che prima della guerra già sommavano a una cinquantina? Queste colonie nutrivano tutt’al più dodicimila agricoltori. Piovevano intanto le turbe chiamate dal miraggio della Terra Promessa, incitate dall’oro sionista. Erano gli affamati ed i perseguitati di Russia, di Polonia, dell’Europa Orientale; ma in mezzo a costoro facilmente si riconoscevano e si additavano i capi spirituali: ingegni pronti, voraci, inflessibili pur nella caratteristica adattabilità israelitica e nell’apparente remissiva mansuetudine (ne abbiamo conosciuti qui e li faremo parlare); gente dal gesto messianico, oppure accesa da un ardore filantropico, oppure ancora pervasa dall’antica cieca fede che la salvazione del mondo dipenda da Israele e che questo sia destinato a sopportare e a redimere tutti i peccati dell’umanità. Gente insomma della tempra di quei fanatici che al Congresso di Basilea del 1903, avendo l’Inghilterra proposto ad Herzl l’Uganda come sede di colonizzazione ebraica, e sembrando questi propenso a secondare l’offerta, erano scoppiati in pianto e in grida deliranti protestando che soltanto in Palestina poteva essere alzato il vessillo di Sion, e che all’infuori di Gerusalemme non esiste paese per gli ebrei.
Occorreva dunque innanzi a tutto conquistare la terra – questa grama terra che l’arabo non coltiva se non quanto gli basti per strapparne un pugno di farina da sostentarsi prima di stendersi sulla sua coperta di lana di cammello –, edificare la città, costruire la società. Impresa stupenda per quei capi che, lasciate le loro case, ed alcuni anche le loro ricchezze, anelavano su questo lembo d’Asia di misurarsi con l’ostacolo materiale, nel cimento fisico, quasi per provare a sè stessi che le braccia ebree, intorpidite da secoli di vita sedentaria e di esasperato intellettualismo, ancora potevano reggere la clava di Sansone.
Rise di nuovo l’Europa: «L’ebreo non sarà mai un agricoltore, e nemmeno un operaio», e creò volentieri un’atmosfera di agnosticismo e di dileggio. Dal canto loro i cattolici guardavano con una specie di ribrezzo questo ammassarsi di crocifissori in Terra Santa; e fra gli stessi ebrei, i liberali si mostravano ostili al movimento sostenendo che Sion non è che un simbolo e che la missione ebraica è di carattere soltanto universale; e gli ortodossi – quelli del Muro del Pianto – indignati dall’irreligiosità sionista – gridavano che tutto ciò era un forzar la mano di Dio, che il Messia aveva da giunger sull’asina bianca, povero e illuminato, e non già con le macchine agricole inviate da Kèren Hajesòd. Dal canto suo l’Inghilterra pensava che che qualche israelita morto per malaria non contava proprio nulla, se intanto la Palestina si bonificava; e un po’ facendo l’occhiolino agli arabi furenti per codesti intrusi, un po’ favorendo il lavoro dei giudei, ondeggiando insomma accortamente fra la sua qualità di potenza musulmana e la promessa del famoso «Focolare», attendeva paziente il maturar delle spighe. Tanto denaro di meno per impinguare questo benedetto mandato.
«Qui si è sacrificato il fiore della nostra gioventù. Qui tutti noi abbiamo zappato, sarchiato, seminato. Qui ci siamo ritrovati fisicamente forti ed abbiamo imparato che tutto il dolore non è solo morale. Avevamo bisogno di soffrir fame, sete, freddo, noi che avevamo provato soltanto i tormenti dello spirito. Ci era indispensabile dormir sotto la tenda, col fucile a portata di mano, dopo aver dormito per secoli in letti soffici ed esserci guadagnati la nomea di poltroni. Per edificare Tel Aviv ciascuno di noi ha dimenticato le sue lauree, i suoi libri, le sue crisi intellettuali (ah, quanti ebrei conosco che avrebbero bisogno di tal aura!), e ha fatto il muratore, il falegname, il carpentiere, l’elettricista. Girando per le strade noi abbiamo la gioia della nostra creazione: noi, che da duemila anni avevamo i muscoli inerti. Vede quegli aranceti. quei boschi di eucalipti, quei campi di frumento? Quindici anni fa eran distese di sabbia. Vede quelle colline subito fuori della città? Quindici anni fa gli arabi ci vendevano il terreno a poche piastre il dunam. Oggi un dunam lo si paga anche dodici sterline.
Il gesto di quest’ebreo, di questo polacco educato in Italia, che s’è laureato due volte ed ha fatto il muratore per conquistare la sua fetta di Sion, che passa dieci ore al giorno in studi filosofici e poi girando pei suoi aranceti tuffa le mani nel concime e ne aspira l’odore esclamando: «Questo è oro» – rievoca il gesto di Jehova additante a Mosé la Terra Promessa.
Il fiore della nostra gioventù… Quanti son morti di malaria nella valle di Izreèl e di Acco? Quanti sono caduti dodici anni fa nella sommossa araba di Giaffa contro la popolazione ebraica e gli immigranti? Quante donne e quanti fanciulli son stati sgozzati ad Hebron e a Safed durante l’Alto Commissariato di Sir John Robert Chancellor? E le distruzioni di Pétach Tikwah, di Hedera, di Rechoròth? Ed i tragici torbidi di Gerusalemme? Gli arabi insorgevano contro la conquista della terra a suon di dollari e di sterline, e in mezzo al sangue si preparava la riscossa terriera musulmana. Non importa: quel gesto messianico sembra continui ad additare un Eden.
Verso l’ignoto
Siamo qui in faccia a questa costruzione tanto più prodigiosa in quanto è il frutto di una volontà quasi fanatica. Dai lerci sobborghi di Giaffa pullulante di arabi con le vesti a brandelli che vi assediano offrendo i loro inutili servigi, da queste strade fangose e ignobili dove il cammello ondeggia grottesco, saliremo domani a Tel Aviv, la città di sessantamila ebrei che laggiù accenna con le sue architetture modernissime. Qualcosa di ibrido, di impossibile, di assurdo, oseremmo dire di contro natura, è in codesto spettacolo che svela la sua origine intellettualistica, che sembra ridursi a un gigantesco dilettantismo. Eppure la realtà è palese: quelle bianche case razionaliste; questo mare di verde che mangia il deserto come un’onda.
Dicono qui: «Che per un’ora soltanto l’Inghilterra sospendesse il mandato, e non resterebbe un ebreo in Palestina». Può darsi. Ma non hanno costoro gi avuto il battesimo del sangue, e – qualcuno afferma – per il compiacente ritardo dell’intervento della forza pubblica?
Una stonatura enorme par scaturire da tanto chiuso, fanatico fervore; ma ciò non toglie che il fenomeno risulti impressionante. Si pensa alla fatalità di questo popolo che ha subìto tutti gli insulti, tutte le prove, che ha dato origine alla più alta religione, che di diaspora in diaspora ha migrato per mondo offrendo il simbolo stesso dell’irreparabile peregrinare, e che adesso si avvinghia qui, nell’incertezza del futuro, e vuol costruirsi se non altro una casa: una casa dove mandare i suoi figli il giorno che non abbiano più pane. Si pensa alla folle, superba illusione di una gente da secoli dispersa e che pure continua a credere di dover adempiere a una missione universale, e di potersi addossare la croce del genere umano. Un immenso panorama spirituale, fosco, triste, eppure affascinante ci si spalanca dinanzi; e ciò che affascina è appunto l’ignoto; è la tragica figura dell’Ebreo Errante che fermo lassù sul monte, ancora non sa se potrà arrestarsi, o se dovrà riprendere il cammino.
La conquista della terra
Terrificante rovina: deserto, palude, malaria. Dov’era la terra di latte e di miele descritta dalla Bibbia? Potevano forse bastare le poche, e non molto ricche, più vecchie colonie – Richòn-le-Ziòn, Rehovòth, Mikvèh Israèl, Pétach-Tikàh, Zichròn Jeacòv e vie dicendo – e le altre più recenti che prima della guerra già sommavano a una cinquantina? Queste colonie nutrivano tutt’al più dodicimila agricoltori. Piovevano intanto le turbe chiamate dal miraggio della Terra Promessa, incitate dall’oro sionista. Erano gli affamati ed i perseguitati di Russia, di Polonia, dell’Europa Orientale; ma in mezzo a costoro facilmente si riconoscevano e si additavano i capi spirituali: ingegni pronti, voraci, inflessibili pur nella caratteristica adattabilità israelitica e nell’apparente remissiva mansuetudine (ne abbiamo conosciuti qui e li faremo parlare); gente dal gesto messianico, oppure accesa da un ardore filantropico, oppure ancora pervasa dall’antica cieca fede che la salvazione del mondo dipenda da Israele e che questo sia destinato a sopportare e a redimere tutti i peccati dell’umanità. Gente insomma della tempra di quei fanatici che al Congresso di Basilea del 1903, avendo l’Inghilterra proposto ad Herzl l’Uganda come sede di colonizzazione ebraica, e sembrando questi propenso a secondare l’offerta, erano scoppiati in pianto e in grida deliranti protestando che soltanto in Palestina poteva essere alzato il vessillo di Sion, e che all’infuori di Gerusalemme non esiste paese per gli ebrei.
Occorreva dunque innanzi a tutto conquistare la terra – questa grama terra che l’arabo non coltiva se non quanto gli basti per strapparne un pugno di farina da sostentarsi prima di stendersi sulla sua coperta di lana di cammello –, edificare la città, costruire la società. Impresa stupenda per quei capi che, lasciate le loro case, ed alcuni anche le loro ricchezze, anelavano su questo lembo d’Asia di misurarsi con l’ostacolo materiale, nel cimento fisico, quasi per provare a sè stessi che le braccia ebree, intorpidite da secoli di vita sedentaria e di esasperato intellettualismo, ancora potevano reggere la clava di Sansone.
Rise di nuovo l’Europa: «L’ebreo non sarà mai un agricoltore, e nemmeno un operaio», e creò volentieri un’atmosfera di agnosticismo e di dileggio. Dal canto loro i cattolici guardavano con una specie di ribrezzo questo ammassarsi di crocifissori in Terra Santa; e fra gli stessi ebrei, i liberali si mostravano ostili al movimento sostenendo che Sion non è che un simbolo e che la missione ebraica è di carattere soltanto universale; e gli ortodossi – quelli del Muro del Pianto – indignati dall’irreligiosità sionista – gridavano che tutto ciò era un forzar la mano di Dio, che il Messia aveva da giunger sull’asina bianca, povero e illuminato, e non già con le macchine agricole inviate da Kèren Hajesòd. Dal canto suo l’Inghilterra pensava che che qualche israelita morto per malaria non contava proprio nulla, se intanto la Palestina si bonificava; e un po’ facendo l’occhiolino agli arabi furenti per codesti intrusi, un po’ favorendo il lavoro dei giudei, ondeggiando insomma accortamente fra la sua qualità di potenza musulmana e la promessa del famoso «Focolare», attendeva paziente il maturar delle spighe. Tanto denaro di meno per impinguare questo benedetto mandato.
«Qui si è sacrificato il fiore della nostra gioventù. Qui tutti noi abbiamo zappato, sarchiato, seminato. Qui ci siamo ritrovati fisicamente forti ed abbiamo imparato che tutto il dolore non è solo morale. Avevamo bisogno di soffrir fame, sete, freddo, noi che avevamo provato soltanto i tormenti dello spirito. Ci era indispensabile dormir sotto la tenda, col fucile a portata di mano, dopo aver dormito per secoli in letti soffici ed esserci guadagnati la nomea di poltroni. Per edificare Tel Aviv ciascuno di noi ha dimenticato le sue lauree, i suoi libri, le sue crisi intellettuali (ah, quanti ebrei conosco che avrebbero bisogno di tal aura!), e ha fatto il muratore, il falegname, il carpentiere, l’elettricista. Girando per le strade noi abbiamo la gioia della nostra creazione: noi, che da duemila anni avevamo i muscoli inerti. Vede quegli aranceti. quei boschi di eucalipti, quei campi di frumento? Quindici anni fa eran distese di sabbia. Vede quelle colline subito fuori della città? Quindici anni fa gli arabi ci vendevano il terreno a poche piastre il dunam. Oggi un dunam lo si paga anche dodici sterline.
Il gesto di quest’ebreo, di questo polacco educato in Italia, che s’è laureato due volte ed ha fatto il muratore per conquistare la sua fetta di Sion, che passa dieci ore al giorno in studi filosofici e poi girando pei suoi aranceti tuffa le mani nel concime e ne aspira l’odore esclamando: «Questo è oro» – rievoca il gesto di Jehova additante a Mosé la Terra Promessa.
Il fiore della nostra gioventù… Quanti son morti di malaria nella valle di Izreèl e di Acco? Quanti sono caduti dodici anni fa nella sommossa araba di Giaffa contro la popolazione ebraica e gli immigranti? Quante donne e quanti fanciulli son stati sgozzati ad Hebron e a Safed durante l’Alto Commissariato di Sir John Robert Chancellor? E le distruzioni di Pétach Tikwah, di Hedera, di Rechoròth? Ed i tragici torbidi di Gerusalemme? Gli arabi insorgevano contro la conquista della terra a suon di dollari e di sterline, e in mezzo al sangue si preparava la riscossa terriera musulmana. Non importa: quel gesto messianico sembra continui ad additare un Eden.
Verso l’ignoto
Siamo qui in faccia a questa costruzione tanto più prodigiosa in quanto è il frutto di una volontà quasi fanatica. Dai lerci sobborghi di Giaffa pullulante di arabi con le vesti a brandelli che vi assediano offrendo i loro inutili servigi, da queste strade fangose e ignobili dove il cammello ondeggia grottesco, saliremo domani a Tel Aviv, la città di sessantamila ebrei che laggiù accenna con le sue architetture modernissime. Qualcosa di ibrido, di impossibile, di assurdo, oseremmo dire di contro natura, è in codesto spettacolo che svela la sua origine intellettualistica, che sembra ridursi a un gigantesco dilettantismo. Eppure la realtà è palese: quelle bianche case razionaliste; questo mare di verde che mangia il deserto come un’onda.
Dicono qui: «Che per un’ora soltanto l’Inghilterra sospendesse il mandato, e non resterebbe un ebreo in Palestina». Può darsi. Ma non hanno costoro gi avuto il battesimo del sangue, e – qualcuno afferma – per il compiacente ritardo dell’intervento della forza pubblica?
Una stonatura enorme par scaturire da tanto chiuso, fanatico fervore; ma ciò non toglie che il fenomeno risulti impressionante. Si pensa alla fatalità di questo popolo che ha subìto tutti gli insulti, tutte le prove, che ha dato origine alla più alta religione, che di diaspora in diaspora ha migrato per mondo offrendo il simbolo stesso dell’irreparabile peregrinare, e che adesso si avvinghia qui, nell’incertezza del futuro, e vuol costruirsi se non altro una casa: una casa dove mandare i suoi figli il giorno che non abbiano più pane. Si pensa alla folle, superba illusione di una gente da secoli dispersa e che pure continua a credere di dover adempiere a una missione universale, e di potersi addossare la croce del genere umano. Un immenso panorama spirituale, fosco, triste, eppure affascinante ci si spalanca dinanzi; e ciò che affascina è appunto l’ignoto; è la tragica figura dell’Ebreo Errante che fermo lassù sul monte, ancora non sa se potrà arrestarsi, o se dovrà riprendere il cammino.
MARZIANO BERNARDI
Gerusalemme, 28 notte. (M.) – Da alcuni giorni si trova in Palestina Lord Melchett, grande patriota ebraico, il quale si consacra in maniera speciale al movimento sportivo della gioventù del suo popolo in ogni angolo della Diaspora. Il suo arrivo in Terrasanta non ha segnato che un’ultima tappa dopo il suo lungo viaggio attraverso i varii paesi dell’Europa orientale e meridionale. Nei principali centri della Palestina ha pronunciato discorsi infiammati davanti a grandi folle di ebrei, insistendo sulla necessità di un’organizzazione moderna dei giovani israeliti, a base di ginnastica, di disciplina morale e di sviluppo intellettuale. Giacché tocca alla nuova generazione rialzare il livello generale della vita del «popolo eletto», facendo tesoro dell’esperienza di tanti secoli di persecuzione, e attuando il vecchio programma di una educazione che si inspiri al «mens sana in corpore sano». I giovani ebrei, plasmati con simili criteri di pedagogia, devono diventare, nei sogni di Lord Melchett, una specie di nuove falangi dei Maccabei, pronte a osare ogni cosa per la causa della patria ritrovata tra i Colli di Sion, dopo venti secoli di esilio.
Fantastica odissea di un ex-Combattente
La Stampa,
domenica, p. 3
29 gennaio 1933
Gerusalemme, 28 notte. – (M.) Un ebreo di Tel Aviv è stato protagonista di una lunga vicenda che sa di romanzo sensazionale e che potrebbe servire ottimamente da trama di una pellicola cinematografica di carattere patetico. Sposatosi nel 1914, l’eroe di questa storia aveva avuto un figlio e poi, scoppiata la guerra, si era arruolato nell’armata tedesca, mentre sua moglie entrava come infermiera volontaria nella Croce Rossa.
Sbalestrati dagli avvenimenti, i due sposi finirono ben presto per perdersi di vista. Un giorno il povero marito ricevette la notizia che sua moglie era stata uccisa da una bomba aerea. Tentò allora di rintracciare suo figlio, ma tutte le sue ricerche riuscirono vane. Sfiduciato della vita, nel 1920 ritornava in Palestina, installandosi come operaio nella colonia di Zion-le-Richon. Qualche tempo dopo convolava a seconde nozze con una giovane di Rechobot da cui aveva un ragazzo al quale imponeva il medesimo nome già dato al frutto del suo primo amore. Ultimamente veniva colpito da una grave malattia per cui fu necessario il suo trasporto in un ospedale di Gerusalemme.
Dopo essere stato per vari giorni tra la vita e la morte, egli poté finalmente considerarsi fuori pericolo grazie alle cure amorose di una meravigliosa infermiera. Si può immaginare il suo stupore quando, riacquistata la conoscenza, ravvisò nella buona donna che lo assisteva la sua prima moglie.La sua commozione fu così violenta che il povero ex-soldato svenne e ricadde ammalato. Ma appena rimessosi e uscito dall’ospedale, egli si affrettava a divorziare dalla sua seconda sposa per ritornare a convivere colla sua prima consorte e col suo primo figlio diventato ormai un giovanotto gagliardo.
I nuovi Maccabei
La Stampa,
domenica, p. 3
29 gennaio 1933
Nessun commento:
Posta un commento