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Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1928. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1928.
Mentre valgono le considerazioni generali già fatte per le precedenti fonti documentarie, e cioè: Vedi Elenco Numerico, pare
qui opportuno rilevare ogni volta la casualità e imparzialità con
la quale le diverse fonti si aggiungono le une alle altre, animati da
una pretesa di completezza, che sappiamo difficile da raggiungere. Il quotidiano “La
Stampa”, fondato nel 1867, rende disponibile il suo archivio storico
dal 1867 al 2006. Valgono i criteri generali enunciati in precedenza e
adattati ogni volta alla specificità della nuova fonte. Assumendo
come anno di partenza il 1921 seguiamo un metodo sincronico,
raccordandolo con quello diacronico basato su alcuni anni di
riferimento.
Anno inizio spoglio: 1921. |
Sommario: 1. La Palestina ebraica: a) Il ritorno di Israele. – Segue: b) Singolarità economiche. – Segue: c) Le forme economiche della colonizzazione. – Segue: d) L’industria e il commercio. – Segue: e) La nuova città. – 2. Ira israelita in Polonia contro «Il Dio della vendetta». – 3. Aurora di Giaffa. –
Indice Analitico: a b c d e f g h i j k l m n o p q r s t u v w x y z. – Eventi del 1928. – Altre fonti giornalistiche, periodiche o archivistiche del 1928.
a.
Il ritorno di Israele
Il ritorno di Israele
La Stampa, 1ª ed.
Anno LXII, n. 34
Anno LXII, n. 34
giovedì, p. 1-2
9 febbraio 1928
La Palestina ebraica presenta una grande varietà di forme coloniche dovuta sia alla diversità degli ambienti agronomici, sia ai diversi indirizzi mentali e spirituali dei gruppi di immigrati. L’ordinamento economico, naturalmente, risente anche dello stadio economico-tecnico cui, nelle singole zone, sono giunte le colture.
La politica fondiaria sionista, affermata a Londra, mira anche a «combattere la speculazione». Concentrando gli acquisti in massima parte in un solo organo, evita o attenua pericolose concorrenze e il presentarsi in Palestina di quei fenomeni di febbre speculativa e sopravalutazione del suolo che si sono presentati tanto spesso nei paesi di nuova colonizzazione, nell’Argentina come negli Stati Uniti e nell’Australia. Il fermo principio della proprietà collettiva assicura al Keren Kayemed il pingue incremento di valore — l’Unearned increase — che è frutto della complessiva opera dei pertinaci coloni, incremento di valore che è stato oggetto altrove di tanti dibattiti e contrasti e di sottili istituzioni tributarie.
Le colonie create dal Keren Kayemed sono adunque affittanze collettive. Il patto colonico è variamente regolato secondo i casi, secondo il tipo e la posizione delle terre, secondo la possibilità della coltura e le condizioni degli stessi coloni. Importa spesso anticipazione di mezzi colturali e una variabilità graduale dei canoni d’affitto, mano mano che sono vinte le prime difficoltà. Il Fondo cura direttamente le iniziali operazioni di risanamento, prosciugamento e adattamento dei terreni, il collegamento colle grandi strade o linee ferroviarie, la provvista dell’acqua potabile e talora anche dell’acqua irrigatoria.
Le colonie create dal Keren Kayemed sono affittanze collettive e richiamano perciò alla mente il grande movimento che — designato appunto con la dizione «affittanze collettive» — si svolse fra il 1905 e il 1910 in parecchie plaghe d’Italia, specialmente sotto l’egida del partito cattolico e del partito socialista; movimento rispetto al quale fu ripetuta la parola pronunciata da Maffeo Pantaleoni, dieci anni prima, nel suo saggio sui principii della cooperazione : «L’idea cooperativa e un’idea virile»; «è l’idea di una gente che non vuole sottostare alle condizioni di salario richieste da un impresario» ; «è un’idea di emancipazione e di ribellione». Ricordo fra gli studi che furono dedicati a questo nuovo movimento operaio italiano, l’inchiesta notevolissima condotta nel 1906 dalla Federazione Italiana dei Consorzi agrari di Piacenza, sotto l’egida dell’on. Raineri, inchiesta che portò ad una fine analisi delle caratteristiche tecniche ed economiche del diversi tipi di affittanze.
Percorrendo le campagne della Giudea e della Galilea per visitare alcune delle nuove affittanze collettive ebraiche, mi sono ritornate alla mente le parole di Maffeo Pantaleoni e anche le indagini della nostra Federazione dei consorzi agrari, poiché l’attuale fenomeno ebraico, in diversa guisa, si riconnette con il fenomeno italiano e parecchi fra i problemi che ora si dibattono in Palestina intorno alla gestione delle colonie, sono quei medesimi che erano posti in evidenza dai nostri studiosi venti anni fa.
Affittanze a condizione divisa
e affittanze a condizione unita
Anche nella Palestina ebraica si hanno i due tipi di organizzazione agraria. Si ha il moshav ovedin (letteralmente «sede di lavoratori»), dove il terreno è diviso in lotti, generalmente di pari estensione, attribuiti ciascuno a una famiglia che cura per proprio conto, in maniera autonoma, la coltivazione e l’erogazione dei prodotti. E si ha la chevuzah (riunione, gruppo), colonia dove il lavoro della terra avviene in comune e in comune anche si svolge la vita degli agricoltori e della vita si sopporta il costo.
Le colonne ebraiche sono ormai molto numerose in Palestina: raggiungono forse il centinaio. Sono svariatissime di ampiezza (la maggiore Petach Tikvah, conta 6000 abitanti e alcune scendono fino a una cinquantina di persone), svariatissime di ambiente agricolo, di coltura, di tipo tecnico e anche di organizzazione economica. Abbiamo accennato alle due forme direttive fondamentali, ma se si potesse scendere ad una analisi, la distinzione sarebbe più complessa, poiché si hanno molte differenze particolari di organizzazione; l’assetto è tuttora mutevole, talora ha carattere sperimentale. Queste varietà e variabilità di ordinamento corrispondono in parte alle condizioni di ambiente e allo svolgimento della evoluzione agricola, dalla tecnica primitiva alla progredita; in parte anche corrispondono alla ricchezza intellettuale e spirituale di queste masse ebraiche, alla vigoria dei sentimenti che le animano, al desiderio di tentare vie nuove. In una bella monografia sulle colonie a conduzione unita (The Communistic Settlement in the Jewith Colonisation in Palestine) dovuta all’economista E. Elazari-Volcani, trovo il seguente profilo psicologico dei nuovi agricoltori palestinesi:
«Noi non abbiamo una vita ebraica di villaggio, dominata da tendenze conservative e attaccamento alle tradizioni: non abbiamo vecchi villaggi in cui nessuna voce esterna possa giungere e in cui durante intere generazioni si viva separati dal resto dell’umanità. Noi siamo una tribù errante e da duemila anni siamo staccati dal suolo. Nella nostra lunga captività, l’effervescenza [?] è divenuta per noi una seconda natura. I nostri nervi sono diventati corde musicali che vibrano ad ogni soffio di vento, come l’arpa di Davide che, si dice, suonava da se stessa. I nostri coloni sono i più eccitabili e i più indisciplinati dei mortali. Essi fanno, coi loro corpi stessi, un ponte, un passaggio, da un presente instabile ad un avvenire sicuro e calmo».
Questa psicologia spiega l’effervescenza spirituale e intellettuale che prevale nelle aftittanze a condizione unita, nelle cosiddette «colonie comuniste». In esse gli associati hanno tutto in comune: capitale, lavoro, proventi; al lavoro prestato dal singoli non corrisponde il conteggio di un salario nemmeno a titolo di anticipazione. Così la vita si svolge in comune anche nei rispetti dei consumi ed in comune vengono presi i pasti. Nella colonia di Daganiah (Bassa Galilea) che io ho visitata, rimane almeno la proprietà individuale degli indumenti e di altri oggetti di uso; i figli sono custoditi lungo le ore del giorno in asili e scuole della colonia, ma alla sera tornano presso i genitori; in altre colonie, fra cui è tipica quella di Ein Harod, il carattere comunista è ancora più pronunciato e i figliuoli rimangono alla notte presso le istituzioni comuni. Appare singolare la dimensione assunta da un simile organismo, poiché tale colonia numera 400 abitanti.
Il libro del Volcani traccia le complesse vicende — che qui non si possono riepilogare – di talune fra queste colonie comuniste; di qualche vicissitudine mi è giunta l’eco anche nella mia cisita. Alcuni contrasti, alcune difficoltà pratiche e amministrative ricordano i fenomeni che hanno segnato la vita delle affittanze collettive emiliane e romagnole. Ma tuttavia questi organismi palestinesi vivono. La contabilità in qualche anno e in qualche colonia — come appare sia dal volume del Volcani che dal poderoso rapporto dell’Esecutivo Sionista che ho sott’occhio — segna talora dei disavanzi: a Daganiah mi è stato assicurato però che le divergenze fra entrate e spese negli anni sfavorevoli, sono colmate essenzialmente mediante variazioni nel tenore di vita e non con mezzi esterni. I colonisti di Daganiah con cui ho parlato, sembravano ascoltare con qualche maraviglia le mie obiezioni «piccolo borghesi» al loro regime e mi hanno dichiarato che il lavoro è prestato volonterosamente da tutti anche se non vi ha speciale distinzione di rimunerazione e che non vi sono eccedenze individuali di consumo anche non essendovi separazione di costi, di dispendi. Sembra che il fattore spirituale sia valido tanto da mantenere potente la coesione: efficace così da stimolare pertinace il lavoro e da rendere evidente dinanzi ad ognuno il bene comune e muovere tutti verso il fine della nuova società ebraica.
Fra le colonie comuniste si hanno condizioni diverse nei riguardi del sentimento religioso degli adepti, sentimento che forse non ha primaria importanza per mantenere saldi questi aggregati. Le affittanze a conduzione unita sono evidentemente organismi delicati che possono sorgere e anche svilupparsi in date condizioni di spirito e di ambiente, ma la cui sorte come istituzioni sociali a larga portata sembra debba essere precaria. È probabile che esse non siano la base duratura della colonizzazione ebraica, della formazione della nuova società e che questa sorga piuttosto dalle affittanze divise e che queste, ancora, siano il vivaio di piccoli proprietari. Ma, comunque, oggi le colonie collettiviste sono un caratteristico prodotto della eccezionale e fervida vita che si vive in Palestina. Quando in un avvenire remoto la Palestina ebraica avrà raggiunto un assetto definitivo e saldo e di grandi proporzioni, con un milione od anche con qualche milione di abitanti, le colonie collettive saranno ricordate forse con rimpianto come associazioni in cui il lavoro e la vita si svolgevano con la gioia e la fervidezza che derivano dalla passione e dalla tensione verso un fine elevato.
Nello stadio transitorio che ora attraversa la Palestina israelitica, le affittanze a conduzione unita hanno anche una funzione pratica assai ragguardevole, quella di essere quasi dei poderi-scuola per taluni degli inesperti coloni nuovamente giunti in Palestina; le colonie comuniste in prevalenza svolgono una coltura estensiva, più semplice, e in esse gli agricoltori di nuova formazione acquistano le cognizioni pratiche loro necessarie per l’ulteriore opera rurale, anche se di carattere intensivo.
Poche parole soltanto bastano a designare il carattere economico delle colonie a conduzione divisa, dove il terreno coloniale è diviso in lotti generalmente di superficie eguale, coltivati dalle singole famiglie, ciascuna con propri mezzi e con propri risultati. Questi, naturalmente, differiscono da lotto a lotto, anche secondo la capacità e la solerzia dei coltivatori; attraverso il tempo i lotti vanno differenziandosi anche per il diverso sviluppo che assumono le dotazioni di scorte vive e morte. Nella colonia di Nahalal, che ho potuto visitare mentre percorrevo la strada fra il Lago di Tiberiade e Caifa, i lotti sono tutti di cento dunam (un dunam è pari circa a 900 metri quadrati); la colonia è in via di rapido sviluppo poiché intorno al nucleo primitivo vanno sorgendo nuove dimore di contadini e nuove zone si acquistano e si pongono a coltura. Non lungi dall’aggregato coloniale, a Nahalal è stato piantato un vasto bosco di eucalipti, esso pure diviso in lotti, ciascuno dei quali assegnato ad una famiglia colonica. La conduzione del terreno è nettamente divisa, assicurandosi l’autonomia di vita e di opera agli agricoltori, ma molti sono i servizi comuni, molte le funzioni attribuite all’amministrazione sociale, e questa dirige in fatto la tecnica culturale in tutta la colonia.
Nelle colonie, dell’uno e dell’altro tipo, come in tutta la Palestina ebraica, emerge la grande e devota cura che è dedicata alla formazione fìsica, spirituale ed intellettuale della nuova generazione. L’occhio del visitatore è sempre attratto con simpatia dai graziosi edifici dove hanno sede le case dei bambini e le scuole. La nuova generazione sorge florida e ridente; la vita attiva dei campi, che dura generalmente ormai da parecchi anni, va trasformando anche il fisico degli adulti: i nuovi agricoltori sono già di un tipo assai diverso da quello degli Ebrei che vivono nelle città europee.
L’economia della Palestina presenta svariate analogie con quella dell’Italia; l’agricoltura è, come in Italia, assai ineguale di tipo e di prodotto da plaga a plaga e produce in larga misura vettovaglie squisite, ma a scarso tenore nutritivo, di tipo voluttuario, con domanda che a un dato punto diventa rigorosamente rigida. Come l’Italia, la Palestina è paese privo di materie prime, in cui le condizioni fondamentali di ambiente non sono propizie allo svolgimento di attività industriale. Anche la Palestina antica era presumibilmente priva di industrie di una qualche entità. Gli accenni che intorno all’opera manifatturiera sono contenuti nella Bibbia, nel «Libro dei Re» e nelle «Cronache», specialmente riguardo alla economia politica di Salomone, sono probabilmente leggendari. L’industria antica era limitata, rivestiva la forma di artigianato ed operava in vista essenzialmente del mercato interno; le fonti antiche non ebraiche segnalano pochissimi esempi di prodotti industriali giudaici, che fossero oggetto di esportazione dal paese; si tratta forse soltanto del bitume del Mar Morto e di alcuni articoli di profumeria.
Il fenomeno sociale della Palestina ebraica è oggi d’universale Interesse, per il complesso degli elementi spirituali ed economici e politici che su di esso richiamano tanto l’ispirazione dell’artista (tema anche di recentissimi romanzi), quanto l’osservazione del sociologo, dell’economista, del politico. Riccardo Bachi, professore di Economia all’Istatuto superiore di scienze economiche e commerciali in Roma — noto anche al gran pubblico per le sue periodiche elaborazioni dei «numeri indici» —, è stato di recente in Palestina a studiare questo fenomeno e ha scritto per la «Stampa» una serie di articoli, di cui iniziamo oggi la pubblicazione.
I.
Pochi fenomeni sociali sono oggi cosi tipici e singolari come il ritorno di Israele alla terra dei padri lontani; pochi ambienti si presentano così interessanti e ragguardevoli quali oggetto di studio, per l’economista e il sociologo, come la nuova Palestina ebraica. Più che altrove, vi apparisce evidente, nella vita e nell’opera individuale, l’azione dei fattori spirituali. Potranno riuscire quindi di qualche interesse, anche per i lettori non ebrei, alcune impressioni sui fenomeni sociali ed economici di questo paese, impressioni riassuntive di un mio breve viaggio.
La resurrezione della lingua ebraica
Il fenomeno che immediatamente colpisce chi giunge in Palestina è la resurrezione della lingua ebraica, coma lingua parlata, di generale uso, fenomeno che costituisce forse un unicum nella storia glottologica dell’umanità. L’ebraico da secoli era lingua morta; già negli ultimi tempi anteriori alla distruzione del Tempio, era stato soppiantato, nell’uso abituale, dall’aramaico e ridotto allo stato di lingua liturgica e dotta. Dopo la dispersione, nella Diaspora si formarono, per l’uso corrente, linguaggi nei quali gli elementi ebraici erano piuttosto scarsi o bizzarramente associati agli idiomi locali. Lungo il Medio Evo, l’ebraico perdurò come lingua letteraria e scientifica, ma via via sempre più scarsamente nota presso la generalità degli stessi Ebrei. L’attuale rinascita come lingua viva è in qualche modo fenomeno artificiale, ma che pur si scosta le mille miglia dai numerosi tentativi, svolti lungo gli ultimi decenni, per la costruzione ex novo di lingue artificiali, universali; si scosta specialmente per lo spirito che ha animato questa resurrezione.
Tale ricostruzione linguistica è stata, in origine, l’opera pertinace di alcuni volonterosi e valorosi — a capo dei quali fu Eliezer Ben Jebuda — che, poco prima della guerra mondiale, compilarono il primo dizionario e la prima grammatica adatti per l’uso quotidiano. La base del materiale linguistico è tratta dalla Bibbia, dal Talmùd, dalla letteratura rabbinica medioevale, e anche da voci dell’uso fra gli Ebrei dell’Europa orientale; naturalmente — come in tutte le lingue moderne — altri elementi sono di derivazione greca, foggiati per necessità, uniformi dovunque, per l’uso scientifico e tecnico. Talune particolarità glottologiche della lingua ebraica sembrerebbero renderla poco adatta all’uso moderno: tale ad esempio le forme dei tempi nei verbi, limitate a due sole (il perfetto e il futuro), la gran complicazione del sistema delle flessioni verbali; la assenza di parole composte, parzialmente sostituite da uno speciale tipo di genitivo (lo stato costrutto). Altra singolarità della lingua ebraica, che sembrerebbe renderla inadatta al bisogno moderno, si è l’abituale assenza nel testo scritto della segnatura delle vocali, assenza che parrebbe dover determinare grandi incertezze nel significato degli scritti. Malgrado queste ed altre particolarità, la lingua ebraica si è rapidamente imposta, sia ai nuclei israelitici che già esistevano in Palestina, che alle genti sopraggiunte: è divenuta lingua di generale uso insegnata nelle scuole, adottata nella stampa, nei libri anche scientifici e nella leggi. La letteratura palestinese — ormai così ricca e varia — che emana dagli ebrei, è tutta quanta scritta in questa lingua antica e nuova. La conoscenza di essa (se non l’effettivo uso abituale) tende a diffondersi anche in taluni nuclei ebraici della Diaspora. La resurrezione della lingua è fenomeno che ha in Palestina importanza decisiva, sociale, spirituale ed anche politica. Senza l’uniformità dell’idioma non potrebbe avvenire, come invece avviene discretamente rapida, la fusione di elementi cosi vari per provenienza, per costumi, per data di arrivo: se ciascuno di questi nuclei continuasse a parlare lo spagnuolo, l’arabo, il tedesco, il russo, il lituano, il polacco, ecc., evidentemente rimarrebbero indelebili le differenze di costumi e di vita ed impossibile sarebbe la formazione di un solo tutto ebraico, di un solo pensiero, di un solo costume. Senza l’unità del linguaggio non sarebbe stato possibile il raggiungimento della posizione politica assicurata agli ebrei dalla Dichiarazione Balfour in confronto con la popolazione araba: tale posizione politica importava evidentemente il riconoscimento di una lingua per gli ebrei, alla pari con l’arabo e con l’inglese. Era perciò necessario che tale lingua esistesse.
I caratteri dei ritornanti
Se una rilevazione statistica contemplasse gli immigrati ebrei in Palestina dopo la guerra, secondo la loro età, si noterebbe indubbiamente una caratteristica, che è propria del resto generalmente dei migranti, quella di una grande prevalenza delle classi giovani. Per i nuclei di nuova formazione nella Palestina ebraica si ha così una speciale configurazione demografica, che ha un’enorme importanza sociologica, politica, economica, intellettuale nei rispetti della formazione di una élite. Questa distribuzione per età importa un cumulo di energie di potenzialità produttiva, di capacità intellettuale per cui il nuovo nucleo ha una possanza proporzionalmente assai superiore alla sua dimensione numerica assoluta, possanza che deriva anche dal fatto — che è pur abituale riguardo alle emigrazioniin genere — che gli emigrati rappresentano, di solito, elementi scelti per capacità e vigoria, rispetto alla massa da cui si staccano.
I caratteri psicologici ben noti che sono prevalenti dovunque nella popolazione ebraica, risultano in varia guisa accentuati nel nuovo gruppo palestinese. Soprattutto risulta accentuata la grande prevalenza della classe intellettuale. Molti Ebrei sono partiti dall’Europa verso la Terrasanta, stimolati da un movimento spirituale; molti altri hanno lasciato la Rumenia, la Russia, la Polonia, sotto la pressione delle dolorose condizioni loro create dai pregiudizi di religione e di razza e per le tristi condizioni economiche determinate dalla guerra e dai posteriori rivolgimenti sociali. Tutti questi stimoli all’emigrazione hanno fatto presa soprattutto sulle classi intellettuali. Così nella massa degli arrivati in Palestina appare altissima la proporzione degli individui dotati di alto grado di coltura, che hanno avviato o compiuto studi universitari. Nella mia breve peregrinazione attraverso la Palestina ho potuto avvicinare molti «universitari», parecchi laureati, diplomati, magnificamente dotati di coltura tecnica, giuridica, filosofica, i quali – nella Terra degli antichi padri – non disdegnano il lavoro manuale e specialmente il lavoro agricolo. Parecchi fra i «hainzim», fra i pionieri delle colonie, provengono dai banchi della scuola e sono dei cerebrali, mi piace di ricordare, specialmente, un valoroso coltivatore di aranci nella colonia di Rehovod, forse l’unico italiano colono in Palestina. Il dott. Enzo Sereni, che io avevo conosciuto a Roma, studente in filosofia. Il meccanico dell’automobile che mi ha condotto in giro per la Palestina è figlio di un grande industriale russo, completamente rovinato dal bolscevismo; e mentre guadagna il suo pane come conduttore di automobili, concentra i suoi sforzi economici ed intellettuali per riprendere al Politecnico di Bruxelles gli studi forzatamente interrotti. La formazione di una massa operaia ebraica, specialmente agricola, così eccezionalmente costituita, è evidentemente strumento efficacissimo per la formazione dello spirito di ricostruzione della Palestina.
La ruralizzazione di Israele
La popolazione israelita è dovunque, nella Diaspora, tipicamente urbana. Questo carattere cittadino di Israele si presenta sin dall’antichità, sin dagli inizi della formazione della Diaspora, quando ancora non era avvenuta la dispersione. Il fenomeno è assai frequente nelle migrazioni dei popoli. Gli Italiani, emigrando nelle due Americhe, in una certa fase del movimento, si sono sono addensati soprattutto a Buenos Aires, a San Paolo, New York od in una ulteriore fase hanno preferito scegliere la loro dimora in grandi città dell’interno, spesso non lungi dal mare. L’addensamento degli Ebrei nelle città è stato inizialmente determinato dal movimento migratorio e fu poi accentuato e consolidato dalle interdizioni legali.
Come è ben noto, i fenomeni demografici, economici, sociologici che si presentano presso gli Ebrei della Diaspora sono conformi a quanto è tipico della vita urbana. Questo «urbanesimo ebraico» spiega molte divergenze che si presentano e sono segnalate dalla statistica, fra la demografia delle minoranze ebraiche e i fenomeni generali della popolazione dei vari paesi.
L’emigrazione ora compiuta dagli Ebrei, fra l’Occidente e la Palestina, non è soltanto un movimento geografico reciproco a quello svoltosi in secoli lontani fra la Palestina e l’Occidente, ma è un movimento a ritroso di quello che è prevalente nell’età moderna. La vita sociale attuale – non solo fra gli Ebrei – è essenzialmente urbana e dominata dal grande addensamento di popolazione nei centri cittadini. Il sionismo invece è un vasto tentativo di ruralizzazione, di passaggio dalla città in campagna. È una estesa conversione in agricoltori di elementi che mancano di tradizioni campagnuole, di contatto con i fenomeni della natura, di nozioni tecniche, di confidenza e amore della terra. Persone che hanno secoli o millenni di tradizione cittadina si devono rapidamente trasformare in contadini e la trasformazione è tanto più difficile in quanto questa gente giunge da paesi dove, per condizioni naturali e scociali, l’ambiente agronomico è molto diverso da quello che essi trovano sulle rive del Giordano.
La necessità di una trasformazione dell’immigrato da cittadino in campagnuolo, influisce profondamente su tutte le condizioni, anche tecniche, della nuova colonizzazione ebraica. La ruralizzazione di Israele è fenomeno tra i più importanti e degni di nota: non può essere rapidissimo, istantaneo. La mancanza di una lunga e radicata conoscenza della vita campestre è innegabilmente un grave elemento di inferiorità pe ril colono ebreo, ma è pure sotto vari riguardi un elemento di superiorità. L’agricoltore israelita è intelligente, colto e dotato di quello spirito innovatore che si ravvisa tanto comune in Israele. Il pecoraio israelita ha tanto spesso fornito reclute ai movimenti rivoluzionari. L’agricoltore ebreo non presenta così quel carattere di misoneismo, di inerte attaccamento alle vecchie consuetudini, che è così frequente ovunque nelle masse agrarie. Lo spirito innovatore spiega come in parecchie colonie, anche di recente fondazione, già si possa constatare un notevole adattamento del nuovo materiale umano. Ma indubbiamente la gradualità della ruralizzazione impone alla colonizzazione, specialmente nella sua fase iniziale, certi caratteri di transizione da forma di agricoltura primitiva in forme più evolute.
Tale ricostruzione linguistica è stata, in origine, l’opera pertinace di alcuni volonterosi e valorosi — a capo dei quali fu Eliezer Ben Jebuda — che, poco prima della guerra mondiale, compilarono il primo dizionario e la prima grammatica adatti per l’uso quotidiano. La base del materiale linguistico è tratta dalla Bibbia, dal Talmùd, dalla letteratura rabbinica medioevale, e anche da voci dell’uso fra gli Ebrei dell’Europa orientale; naturalmente — come in tutte le lingue moderne — altri elementi sono di derivazione greca, foggiati per necessità, uniformi dovunque, per l’uso scientifico e tecnico. Talune particolarità glottologiche della lingua ebraica sembrerebbero renderla poco adatta all’uso moderno: tale ad esempio le forme dei tempi nei verbi, limitate a due sole (il perfetto e il futuro), la gran complicazione del sistema delle flessioni verbali; la assenza di parole composte, parzialmente sostituite da uno speciale tipo di genitivo (lo stato costrutto). Altra singolarità della lingua ebraica, che sembrerebbe renderla inadatta al bisogno moderno, si è l’abituale assenza nel testo scritto della segnatura delle vocali, assenza che parrebbe dover determinare grandi incertezze nel significato degli scritti. Malgrado queste ed altre particolarità, la lingua ebraica si è rapidamente imposta, sia ai nuclei israelitici che già esistevano in Palestina, che alle genti sopraggiunte: è divenuta lingua di generale uso insegnata nelle scuole, adottata nella stampa, nei libri anche scientifici e nella leggi. La letteratura palestinese — ormai così ricca e varia — che emana dagli ebrei, è tutta quanta scritta in questa lingua antica e nuova. La conoscenza di essa (se non l’effettivo uso abituale) tende a diffondersi anche in taluni nuclei ebraici della Diaspora. La resurrezione della lingua è fenomeno che ha in Palestina importanza decisiva, sociale, spirituale ed anche politica. Senza l’uniformità dell’idioma non potrebbe avvenire, come invece avviene discretamente rapida, la fusione di elementi cosi vari per provenienza, per costumi, per data di arrivo: se ciascuno di questi nuclei continuasse a parlare lo spagnuolo, l’arabo, il tedesco, il russo, il lituano, il polacco, ecc., evidentemente rimarrebbero indelebili le differenze di costumi e di vita ed impossibile sarebbe la formazione di un solo tutto ebraico, di un solo pensiero, di un solo costume. Senza l’unità del linguaggio non sarebbe stato possibile il raggiungimento della posizione politica assicurata agli ebrei dalla Dichiarazione Balfour in confronto con la popolazione araba: tale posizione politica importava evidentemente il riconoscimento di una lingua per gli ebrei, alla pari con l’arabo e con l’inglese. Era perciò necessario che tale lingua esistesse.
I caratteri dei ritornanti
Se una rilevazione statistica contemplasse gli immigrati ebrei in Palestina dopo la guerra, secondo la loro età, si noterebbe indubbiamente una caratteristica, che è propria del resto generalmente dei migranti, quella di una grande prevalenza delle classi giovani. Per i nuclei di nuova formazione nella Palestina ebraica si ha così una speciale configurazione demografica, che ha un’enorme importanza sociologica, politica, economica, intellettuale nei rispetti della formazione di una élite. Questa distribuzione per età importa un cumulo di energie di potenzialità produttiva, di capacità intellettuale per cui il nuovo nucleo ha una possanza proporzionalmente assai superiore alla sua dimensione numerica assoluta, possanza che deriva anche dal fatto — che è pur abituale riguardo alle emigrazioniin genere — che gli emigrati rappresentano, di solito, elementi scelti per capacità e vigoria, rispetto alla massa da cui si staccano.
I caratteri psicologici ben noti che sono prevalenti dovunque nella popolazione ebraica, risultano in varia guisa accentuati nel nuovo gruppo palestinese. Soprattutto risulta accentuata la grande prevalenza della classe intellettuale. Molti Ebrei sono partiti dall’Europa verso la Terrasanta, stimolati da un movimento spirituale; molti altri hanno lasciato la Rumenia, la Russia, la Polonia, sotto la pressione delle dolorose condizioni loro create dai pregiudizi di religione e di razza e per le tristi condizioni economiche determinate dalla guerra e dai posteriori rivolgimenti sociali. Tutti questi stimoli all’emigrazione hanno fatto presa soprattutto sulle classi intellettuali. Così nella massa degli arrivati in Palestina appare altissima la proporzione degli individui dotati di alto grado di coltura, che hanno avviato o compiuto studi universitari. Nella mia breve peregrinazione attraverso la Palestina ho potuto avvicinare molti «universitari», parecchi laureati, diplomati, magnificamente dotati di coltura tecnica, giuridica, filosofica, i quali – nella Terra degli antichi padri – non disdegnano il lavoro manuale e specialmente il lavoro agricolo. Parecchi fra i «hainzim», fra i pionieri delle colonie, provengono dai banchi della scuola e sono dei cerebrali, mi piace di ricordare, specialmente, un valoroso coltivatore di aranci nella colonia di Rehovod, forse l’unico italiano colono in Palestina. Il dott. Enzo Sereni, che io avevo conosciuto a Roma, studente in filosofia. Il meccanico dell’automobile che mi ha condotto in giro per la Palestina è figlio di un grande industriale russo, completamente rovinato dal bolscevismo; e mentre guadagna il suo pane come conduttore di automobili, concentra i suoi sforzi economici ed intellettuali per riprendere al Politecnico di Bruxelles gli studi forzatamente interrotti. La formazione di una massa operaia ebraica, specialmente agricola, così eccezionalmente costituita, è evidentemente strumento efficacissimo per la formazione dello spirito di ricostruzione della Palestina.
La ruralizzazione di Israele
La popolazione israelita è dovunque, nella Diaspora, tipicamente urbana. Questo carattere cittadino di Israele si presenta sin dall’antichità, sin dagli inizi della formazione della Diaspora, quando ancora non era avvenuta la dispersione. Il fenomeno è assai frequente nelle migrazioni dei popoli. Gli Italiani, emigrando nelle due Americhe, in una certa fase del movimento, si sono sono addensati soprattutto a Buenos Aires, a San Paolo, New York od in una ulteriore fase hanno preferito scegliere la loro dimora in grandi città dell’interno, spesso non lungi dal mare. L’addensamento degli Ebrei nelle città è stato inizialmente determinato dal movimento migratorio e fu poi accentuato e consolidato dalle interdizioni legali.
Come è ben noto, i fenomeni demografici, economici, sociologici che si presentano presso gli Ebrei della Diaspora sono conformi a quanto è tipico della vita urbana. Questo «urbanesimo ebraico» spiega molte divergenze che si presentano e sono segnalate dalla statistica, fra la demografia delle minoranze ebraiche e i fenomeni generali della popolazione dei vari paesi.
L’emigrazione ora compiuta dagli Ebrei, fra l’Occidente e la Palestina, non è soltanto un movimento geografico reciproco a quello svoltosi in secoli lontani fra la Palestina e l’Occidente, ma è un movimento a ritroso di quello che è prevalente nell’età moderna. La vita sociale attuale – non solo fra gli Ebrei – è essenzialmente urbana e dominata dal grande addensamento di popolazione nei centri cittadini. Il sionismo invece è un vasto tentativo di ruralizzazione, di passaggio dalla città in campagna. È una estesa conversione in agricoltori di elementi che mancano di tradizioni campagnuole, di contatto con i fenomeni della natura, di nozioni tecniche, di confidenza e amore della terra. Persone che hanno secoli o millenni di tradizione cittadina si devono rapidamente trasformare in contadini e la trasformazione è tanto più difficile in quanto questa gente giunge da paesi dove, per condizioni naturali e scociali, l’ambiente agronomico è molto diverso da quello che essi trovano sulle rive del Giordano.
La necessità di una trasformazione dell’immigrato da cittadino in campagnuolo, influisce profondamente su tutte le condizioni, anche tecniche, della nuova colonizzazione ebraica. La ruralizzazione di Israele è fenomeno tra i più importanti e degni di nota: non può essere rapidissimo, istantaneo. La mancanza di una lunga e radicata conoscenza della vita campestre è innegabilmente un grave elemento di inferiorità pe ril colono ebreo, ma è pure sotto vari riguardi un elemento di superiorità. L’agricoltore israelita è intelligente, colto e dotato di quello spirito innovatore che si ravvisa tanto comune in Israele. Il pecoraio israelita ha tanto spesso fornito reclute ai movimenti rivoluzionari. L’agricoltore ebreo non presenta così quel carattere di misoneismo, di inerte attaccamento alle vecchie consuetudini, che è così frequente ovunque nelle masse agrarie. Lo spirito innovatore spiega come in parecchie colonie, anche di recente fondazione, già si possa constatare un notevole adattamento del nuovo materiale umano. Ma indubbiamente la gradualità della ruralizzazione impone alla colonizzazione, specialmente nella sua fase iniziale, certi caratteri di transizione da forma di agricoltura primitiva in forme più evolute.
RICCARDO BACHI
b.
Singolarità economiche
Singolarità economiche
La Stampa, 1ª ed.
Anno LXII, n. 38
Anno LXII, n. 38
martedì, p. 1-2
14 febbraio 1928
II.
Con la dichiarazione Balfour e l’insediamento
dell’Inghilterra quale Potenza mandataria, la condizione delta
Palestina non risulta solo singolare nei rispetti del diritto
internazionale, ma anche, nei rispetti del diritto costituzionale ed
amministrativo. In vista della formazione della «Sede Nazionale
Ebraica» operano in Palestina alcuni grandi organismi che rappresentano
il movimento ebraico mondiale: il Keren Kayemed Le-lsrael, il Keren
Hayesod e l’Esecutivo dell’organizzazione Sionista. Sono tre grandi
organismi riconosciuti aventi quasi una funzione e una costituzione di
diritto pubblico, con proprio bilancio a con svolgimento di funzioni in
parte corrispondenti a compiti che altrove spettano alla
amministrazione dello Stato. Il primo fra questi organi, il Keren
Kayemed gestisce un fondo speciale destinato all’acquisto delle terre,
fondo che è stato istituito 26 anni fa, nel 1902, per monopolizzare gli
acquisti e coordinarli in vista di evitare la concorrenza nella domanda
di aree e frenare il rialzo nei prezzi. Il secondo organismo, il Keren
Hayesod, gestisce il fondo di ricostruzione della Palestina ebraica;
mentre il precedente organismo viene ad essere una specie di
dipartimento demaniale, questo è una specie di dipartimento
dell’economia nazionale, che cura una gran quantità di servizi destinati
alla formazione e riorganizzazione della Palestina ebraica: tra le
funzioni emergono per il Keren Kayemed la cura della colonizzazione
agricola, per il Keren Hayesod i servizi dell’igiene, dell’istruzione,
dell’immigrazione e lavoro. L’Esecutivo sionista, poi, ha svariate e
delicate funzioni di coordinamento e generale direzione dell’opera
ebraica anche nei rispetti politici, sia di fronte alla Lega delle
Nazioni che di fronte all’Amministrazione del mandato e anche alle
organizzazioni ebraiche dei vari paesi.
Sono organismi che gestiscono
compiessi servizi, che hanno larghi bilanci. I mezzi per fronteggiare i
rilevanti dispendi non sono tratti dalla Palestina, ma affluiscono
dalle masse ebraiche del mondo intero; fluiscono per mille e mille
rivoli come assegni, quote, che in qualche caso, assumono quasi la forma
di una volontaria imposta e più spesso sono doni stimolati con tutti i
mezzi ingegnosi abituali nella propaganda benefica e principalmente
mediante i «bossoli», salvadanai diffusi a migliaia e migliaia fra le
famiglie ebree di ogni parte del mondo. Così le opere di ricostruzione
della Palestina ebraica poggiano, nei rispetti economici, sulla
devozione verso la terra degli avi, da parte degli Israeliti di ogni
paese.
L’organizzazione segnalata non costituisce soltanto una
singolarità nei rispetti dell’amministrazione pubblica, ma anche
riguardo alla «bilancia dei pagamenti» della Palestina. Una forte
partita attiva viene così ad essere costituita dal grande afflusso di
denaro ebraico che giunge da ogni parte del mondo per essere investito
in maniera fruttifera (nei rispetti economici e nei rispetti morali),
per la trasformazione della coltura del suolo e per l’elevazione del
tenore di vita della popolazione. Questo vasto arrivo di denaro da ogni
punto della Diaspora alle rive del Giordano, ricorda in qualche maniera
il grande afflusso di denaro che in tempi antichi giungeva al Tempio
dalle schiere di ebrei viventi fra i Gentili; allora, però, esso si
accumulava per lo più in forma metallica, così come avveniva
nell’antichità nei grandi centri del culto, e costituì il tesoro, che fu
poi pingue preda dei romani.
La colonizzazione di un paese vecchio
La
colonizzazione ebraica della Palestina è assai più difficile di quella
che si è svolta lungo l’ultimo secolo negli Stati Uniti, nel Canada,
nel Brasile, nell’Argentina, nell’Australia, nella generalità dei «paesi nuovi». Spesso nei paesi nuovi esistono terre assai feconde da
porre ad iniziale coltura, in cui la lotta contro le forze naturali per
strappare alle terre un raccolto, si può svolgere in condizioni assai
propizie, accentuate anche dallo Stato che favorisce l’immigrazione e la
messa in valore dei nuovi territori. Sovente le terre da coltivare sono
demaniali e vengono concesse dallo Stato gratuitamente in proprietà ai
coloni, o sono sottoposte al pagamento di lievi canoni enfiteutici a
lungo decorso; sovente avviene l’assegnazione al colono di predisposti edifici rurali, di strumenti, di scorte vive e morte:
abitualmente per le colonie da formare è preordinata una
sistematica organizzazione di servizi pubblici, di prestazioni tecniche
per facilitare la vita e l’iniziale opera dei coloni.
Condizioni assai
diverse e peggiori si sono trovate in Palestina. Si tratta di un paese
non nuovo; di una terra che, in parte almeno, al momento dell’afflusso del coloni non segnava un alto grado di feracità, anzi era deteriorata da secoli di una coltura
irrazionale, esauriente, così da rendere necessario un vasto impiego di
capitale e una complessa organizzazione per la sistemazione agricola
del terreno. A differenza dei paesi transoceanici, non è stato agevole
in Palestina conseguire la disponibilità delle terre, essendo queste,
in massima parte, non già spettanti allo Stato, ma proprietà privata di
arabi. Si rammenta che, presso la popolazione araba, si ebbe un’iniziale
fase di grave sospetto verso l’elemento nuovo che penetrava nella
società palestinese: conflitti gravi, anche armati, ebbero allora luogo e
del sangue fu sparso; ma per buona ventura questa fase è ormai
superata ed è raggiunta la pacifica convivenza. In confronto con altri
paesi d’oltre oceano non si è però avuta solo la resistenza morale e
politica per la provvista della terra da colonizzare, ma anche una
grave onerosità economica; la terra non venne concessa gratuitamente ma
dovette essere conseguita ad alto e crescente prezzo.
L’ambiente
agronomico
La Palestina, al pari dell’Italia, si presenta come un paese
dalle molte agricolture, anzi come un paese dai grandi contrasti fra
zona e zona. Nel breve giro di una corsa d’automobile. il viaggiatore vede svolgersi sotto i suoi occhi la zona della foltissima vegetazione tropicale, la ricca pianura irrigua, la collina rupestre popolata da radi oliveti, la mobile duna sabbiosa, la solenne immensità del deserto, le colline calcaree aridissime senza traccia alcuna di vegetazione e poi ancora il pendio erboso o fiorito, che declina odoroso di gaggie al Mar di Tiberiade. Alla grande varietà di aspetti e di paesaggi, corrisponde la varietà dei tipi di coltura e delle forme di economia rurale. Nel laboratorio di chimica agraria della Scuola di agricoltura di Mikveh Israel – una scuola non lontana da Giaffa, istituita fin dal 1870 dagli Israeliti di Francia – ho notato una raccolta di campioni dai terreni della Palestina, a ciascuno dei quali fa riscontro un diagramma segnante graficamente il contenuto chimico dei singoli terreni. Tali grafici sono documento ben appariscente dell’estrema varietà di una delle condizioni fondamentali della coltura del suolo. Tutta questa gran variabilità del suolo palestinese nei rispetti della produzione agronomica è oggetto di stupore se si tiene presente che la Palestina ha una suprficie pari appena a quella della Sardegna, inferiore a un decimo dell’Italia.
Se si considerano i caratteri che offre il paese rispetto all’opera rurale e si considerano taluni ricordi biblici sulla Palestina antica, si potrebbe ritenere che il clima, o in genere le fondamentali naturali condizioni di coltivabilità del suolo siano mutati dai tempi antichi. Ma questa mutazione è negata dalle recenti indagini; la costanza delle condizioni climatiche e delle condizioni generali di svolgimento della vegetazione mi venne confermata anche dal direttore della Stazione agraria di Tel-Aviv, in base ad ampi studi svolti sulle copiose notizie agrarie contenute nella Bibbia e specialmente nel Talmud. La nozione della gran feracità primitiva della «Terra Promessa» è puramente leggendaria: le difficoltà e la faticosità della coltura agricola risultano evidenti da molti passi biblici e specialmente da talune similitudini, parabole, massime contenute nei Libri Sapienziali e Profetici.
È ben noto però che l’opera pertinace dell’uomo vale molto sovente a migliorare, a trasformare le condizioni agronomiche del suolo; la storia dell’agricoltura italiana è tutta un intreccio di simili fenomeni, e la breve storia della nuova agricoltura ebraica in Palestina può già vantare molti esempi di dune sabbiose trasformate in floride colonie, e di zone acquitrinose prosciugate e rese abitabili e coltivate. In parecchie zone, in pochi anni di coltivazione, si è potuto constatare la significatività e consolante scomparsa della malaria.
Percorrendo in automobile molte plaghe della Palestina mi riusciva spesso assai facile individuare i terreni rimasti in proprietà degli arabi da quelli passati in mano ebraiche. Sono due tipi umani e due metodi decisamente diversi di lotta contro le resistenze della natura, che portano naturalmente a ben diversi risultati. L’agricoltura araba si svolge con metodi primitivi: i campi sono arati con l’aratro a chiodo, tracciato rapidamente, talora da animali diversi aggiogati allo stesso strumento, ed il vomere rudimentale scalfisce appena il terreno; non vi è impiego di macchine e gli strumenti e le pratiche culturali sono arretrate, conformi ad una immutata tradizione secolare. Tale coltura, dal prodotto meschino, è perfettamente coordinata con la vita degli agricoltori, che si svolge rozza e sordida in villaggi composti di miseri abituri costrutti col fango, e malamente coperti di stoppie. I nomadi beduini vivono ancora sotto tende e offrono forse un esempio di quello che doveva essere la vita agraria e pastorale ai tempi di Abramo. È noto a tutti coloro che sono vissuti nel Levante, il bassissimo tenore di vita della popolazione araba, mal nutrita, sudicia, coperta di cenci. Ad un simile tenore di vita può essere sempre sufficiente il tenue prodotto di una agricoltura arretrata, significante minimo impiego di braccia e capitale.
I coloni ebrei recano seco la tradizione e i bisogni della civiltà europea ed hanno un tenore di vita elevato: sono intelligenti e colti. L’intervento loro nell’agricoltura palestinese significa un deciso spostamento di tipo nell’opera rurale. L’organizzazione sionista – e principalmente il Keren Hayesod – viene magnificamente promuovendo questo progresso nella tecnica culturale. Si presenta nella Palestina ebraica un gran fervore di ricerche, di sperimentazioni, di propaganda. Ne è centro direttivo la Stazione Agricola Sperimentale di Tel Aviv, che ho potuto visitare attentamente. È un organismo scientifico di prim’ordine magistralmente diretto e largamente dotato: vi si svolgono ricerche di biologia, patologia vegetale, entomologia, chimica agraria, agronomia, selezione delle sementi, zootecnia. Numerose sezioni sono diffuse nelle colonie e compiono un’opera corrispondente a quella delle nostre Cattedre Ambulanti di Agricoltura. Fondata nel 1921, la Stazione Agricola di Tel Aviv può vantare una buona serie di studi, di pubblicazioni scientifiche e un gran numero di pubblicazioni di propaganda analoghe a quelle che vengono diffuse da simili organismo degli Stati Uniti. Già prima della Stazione di Tel-Aviv, una notevole opera di ricerche sperimentali per il miglioramento della tecnica agricola, era svolta dalla Scuola di agricoltura di Mikveh Israel (he ho ricordato dapprima) fondata con mezzi francesi dall’«Alliance Israélite». Questa scuola è bene equipaggiata; possiede 210 ettari di terreno, variamente coltivati secondo le diverse colture praticate in Palestina e una buona dotazione zootecnica. È una scuola convitto di grado medio: vi si svolge un corso triennale pratico e teorico; prima della guerra l’insegnamento era impartito in francese e gli allievi trovavano talora collocamento anche fuori della Palestina; ora l’insegnamento è svolto unicamente in ebraico e i licenziati rimangono in paese, agevolmente occupati nelle colonie.
Un altro organismo notevole di istruzione femminile agricola ho potuto visitare presso la colonia di Nahalai; è una scuola destinata unicamente alle fanciulle che già posseggono una coltura generale media. Essa è stata fondata ed è mantenuta dall’Associazione delle Domnme sioniste del Canadà.
Se si considerano i caratteri che offre il paese rispetto all’opera rurale e si considerano taluni ricordi biblici sulla Palestina antica, si potrebbe ritenere che il clima, o in genere le fondamentali naturali condizioni di coltivabilità del suolo siano mutati dai tempi antichi. Ma questa mutazione è negata dalle recenti indagini; la costanza delle condizioni climatiche e delle condizioni generali di svolgimento della vegetazione mi venne confermata anche dal direttore della Stazione agraria di Tel-Aviv, in base ad ampi studi svolti sulle copiose notizie agrarie contenute nella Bibbia e specialmente nel Talmud. La nozione della gran feracità primitiva della «Terra Promessa» è puramente leggendaria: le difficoltà e la faticosità della coltura agricola risultano evidenti da molti passi biblici e specialmente da talune similitudini, parabole, massime contenute nei Libri Sapienziali e Profetici.
È ben noto però che l’opera pertinace dell’uomo vale molto sovente a migliorare, a trasformare le condizioni agronomiche del suolo; la storia dell’agricoltura italiana è tutta un intreccio di simili fenomeni, e la breve storia della nuova agricoltura ebraica in Palestina può già vantare molti esempi di dune sabbiose trasformate in floride colonie, e di zone acquitrinose prosciugate e rese abitabili e coltivate. In parecchie zone, in pochi anni di coltivazione, si è potuto constatare la significatività e consolante scomparsa della malaria.
Percorrendo in automobile molte plaghe della Palestina mi riusciva spesso assai facile individuare i terreni rimasti in proprietà degli arabi da quelli passati in mano ebraiche. Sono due tipi umani e due metodi decisamente diversi di lotta contro le resistenze della natura, che portano naturalmente a ben diversi risultati. L’agricoltura araba si svolge con metodi primitivi: i campi sono arati con l’aratro a chiodo, tracciato rapidamente, talora da animali diversi aggiogati allo stesso strumento, ed il vomere rudimentale scalfisce appena il terreno; non vi è impiego di macchine e gli strumenti e le pratiche culturali sono arretrate, conformi ad una immutata tradizione secolare. Tale coltura, dal prodotto meschino, è perfettamente coordinata con la vita degli agricoltori, che si svolge rozza e sordida in villaggi composti di miseri abituri costrutti col fango, e malamente coperti di stoppie. I nomadi beduini vivono ancora sotto tende e offrono forse un esempio di quello che doveva essere la vita agraria e pastorale ai tempi di Abramo. È noto a tutti coloro che sono vissuti nel Levante, il bassissimo tenore di vita della popolazione araba, mal nutrita, sudicia, coperta di cenci. Ad un simile tenore di vita può essere sempre sufficiente il tenue prodotto di una agricoltura arretrata, significante minimo impiego di braccia e capitale.
I coloni ebrei recano seco la tradizione e i bisogni della civiltà europea ed hanno un tenore di vita elevato: sono intelligenti e colti. L’intervento loro nell’agricoltura palestinese significa un deciso spostamento di tipo nell’opera rurale. L’organizzazione sionista – e principalmente il Keren Hayesod – viene magnificamente promuovendo questo progresso nella tecnica culturale. Si presenta nella Palestina ebraica un gran fervore di ricerche, di sperimentazioni, di propaganda. Ne è centro direttivo la Stazione Agricola Sperimentale di Tel Aviv, che ho potuto visitare attentamente. È un organismo scientifico di prim’ordine magistralmente diretto e largamente dotato: vi si svolgono ricerche di biologia, patologia vegetale, entomologia, chimica agraria, agronomia, selezione delle sementi, zootecnia. Numerose sezioni sono diffuse nelle colonie e compiono un’opera corrispondente a quella delle nostre Cattedre Ambulanti di Agricoltura. Fondata nel 1921, la Stazione Agricola di Tel Aviv può vantare una buona serie di studi, di pubblicazioni scientifiche e un gran numero di pubblicazioni di propaganda analoghe a quelle che vengono diffuse da simili organismo degli Stati Uniti. Già prima della Stazione di Tel-Aviv, una notevole opera di ricerche sperimentali per il miglioramento della tecnica agricola, era svolta dalla Scuola di agricoltura di Mikveh Israel (he ho ricordato dapprima) fondata con mezzi francesi dall’«Alliance Israélite». Questa scuola è bene equipaggiata; possiede 210 ettari di terreno, variamente coltivati secondo le diverse colture praticate in Palestina e una buona dotazione zootecnica. È una scuola convitto di grado medio: vi si svolge un corso triennale pratico e teorico; prima della guerra l’insegnamento era impartito in francese e gli allievi trovavano talora collocamento anche fuori della Palestina; ora l’insegnamento è svolto unicamente in ebraico e i licenziati rimangono in paese, agevolmente occupati nelle colonie.
Un altro organismo notevole di istruzione femminile agricola ho potuto visitare presso la colonia di Nahalai; è una scuola destinata unicamente alle fanciulle che già posseggono una coltura generale media. Essa è stata fondata ed è mantenuta dall’Associazione delle Domnme sioniste del Canadà.
RICCARDO BACHI
c.
Le forme economiche della colonizzazione
Le forme economiche della colonizzazione
La Stampa,
Anno LXII, n. 46
Anno LXII, n. 46
giovedì, p. 3-4
23 febbraio 1928
III.
La proprietà privata
Fra i tipi di ordinamento si può segnalare quello basato sulla proprietà privata ebraica del suolo, proprietà non coltivatrice e gestione in economia. Questo tipo si ritrova per esempio al Potach Tikvah, la più antica e vasta delle colonie ebraiche, fondata da alcuni abitanti di Gerusalemme nel 1878. La colonia ha attraversato grandi crisi ed è ora divenuta uno dei maggiori nuclei di agricoltura ebraica poiché abbraccia circa 6.000 abitanti, prevalentemente dediti alla coltivazione degli aranci. La proprietà privata ebraica si ritrova anche a Behovod a sud di Tel-Aviv, colonia fondata nel 1890, che non aveva 1000 abitanti. In queste colonie i lavoratori ebrei sono semplici salariati. La qualità dei proprietari non basta evidentemente a garantire l’indirizzo generale di questa colonizzazione nei rispetti del movimento ebraico. Talora i proprietari sono soltanto degli «uomini economici» che cercano semplicemente di far buoni affari, di realizzare il massimo lucro possibile e ciò è risultato ad esempio, nei giorni appunto in cui io ero in Palestina, a Petach Tikvah, coi fatti che destarono grande sensazione nel paese, e furono noti anche fuori. Alcuni dei «piantatori» preferirono arruolare salariati arabi per le operazioni della raccolta dogli aranci, malgrado che a Petach Tikvah stesso, a Tel-Aviv e in altri punti della Palestina esistano rilevanti schiere di lavoratori ebrei disoccupati, per quella crisi di cui darò cenno in un successiva articolo. I lavoratori arabi — in relazione al loro basso tenore di vita — esigono, in generale, salari inferiori a quelli che vigono per i lavoratori ebrei: ma tuttavia si afferma che l’impiego degli arabi non sia sicuramente conveniente, anche nei rispetti economici, perché la capacità lavorativa è molto inferiore. Comunque, i proprietari di Petach Tikvah preferirono questa volta la mano d’opera araba, e i lavoratori ebrei si opposero mettendo dei «picchetti» a guardia degli aranceti per impedire l’accesso agli arabi; i proprietari chiesero l’intervento della polizia per allontanare le guardie ebraiche, e così avvennero conflitti vivaci, con spargimento di sangue. Questi fatti clamorosi hanno destato una vivissima sensazione nelle masse ebraiche e una larga agitazione da parte delle leghe operaie; della questione si è interessato il Vaad Leumi (Consiglio Nazionale Ebraico), ma non mi è noto se si sia raggiunta l’affermazione del principio della preferenza od esclusività dell’occupazione di mano d’opera della nazionalità del proprietario. Nel conflitto di Petach Tikvah il contrasto sociale fra classe padronale e classe operaia ha soverchiato, in fatto, l’interesse nazionale.
Indubbiamente la condizione di fondi con proprietà ebraica e mano d’opera araba (qualunque sia la situazione generale del mercato del lavoro) non significa risoluzione del problema ebraico, non significa costituzione di una Palestina ebraica; cosi come tale problema non sarebbe risolto dalla proprietà ebraica dell’impresa industriale con salariato non ebraico. Gli ebrei non si radicano alla terra se si ha semplicemente la proprietà ebraica della terra ed è araba la mano d’opera: l’ebraicità della proprietà terriera come di quella industriale può svanire con grande facilità e con la massima rapidità. La colonizzazione ebraica del tipo che qui consideriamo con proprietà non coltivatrice, facilita in sommo grado l’afflusso di capitale ebraica in Palestina, in quanto tale capitale vada alla ricerca di un buon reddito, così come va avvenendo negli ultimi tempi con la rapida estensione degli aranceti: tale colonizzazione è in parte prezioso strumento per attenuare situazioni critiche transitorie determinate da squilibri momentanei nella disponibilità dei fattori produttivi, ma non ha in sé il significato, il compito della rinnovazione di Israele e della creazione di una Palestina veramente ebraica. Non si può pensare che il risorto Israele derivi semplicemente e totalmente da gente che si insedi sulle rive dal Giordano per fare buoni affari.
Accanto alla colonizzazione così svolta su terre acquistate speculativamente da capitali ebraici, si può presumere debbano svilupparsi in avvenire su dagli attuali coloni proletari che coltivano le colonie sioniste, un altro tipo di colonizzazione, quello della piccola proprietà coltivatrice creata mediante risparmio lentamente costituito attraverso il tempo, attraverso il faticoso lavoro della prima generazione degli immigrati. Il desiderio, la fame di terra è fenomeno consueto fra la gente agraria di ogni paese: si può presumere che una tale fame sorga anche fra gli Ebrei giunti negli ultimi anni in Palestina e che ora fecondano la terra procurata dal Keren Kayemed per mezzo dei denari raccolti fra gli ebrei della Diaspora. Forse nella formazione di questa piccola proprietà coltivatrice, forse nella formazione di molte famiglie, le quali — secondo la bella espressione del Libro dei Maccabei — vivano ciascuna sotto il suo fico e sotto la sua vite, sta l’avvenire. della Palestina ebraica.
Le affittanze collettive
Di fronte a queste forme di colonizzazione ebraica, basate sulla proprietà privata del suolo, stanno le forme basate sulla proprietà collettiva. Il Keren Kayemed, coi fondi laboriosamente raccolti tra gli ebrei del mondo intero, ha acquistato gradualmente una cospicua proprietà fondiaria, distribuita in ogni parte della Palestina, ma principalmente in alcuni punti della Giudea, nei pressi di Giaffa, fra Tel-Aviv e Gerusalemme e poi a settentrione nella pianura di Izreèl e più a nord ancora nei pressi del Lago di Tiberiade. Il Congresso sionista tenutosi a Londra nel luglio 1920 — riaffermando un principio che già era stato posto anteriormente —ha solennemente determinato che le terre acquistate dal Keren Kayemed, dal Fondo Nazionale ebraico, debbano rimanere inalienabile proprietà del popolo di Israele. Le terre devono essere cedute (sia per uso agricolo che per costruzione urbana) unicamente in affittanza, in concessione temporanea. Questo principio scrupolosamente mantenuto si riannoda con una delle basi del diritto fondiario talmudico: si può rammentare quanto è scritto nel Levitico: «Le terre non si venderanno per sempre, perché la terra è mia e voi state da me come forestieri ed avventizi». Questa norma antica veramente non importava la proprietà collettiva della terra, ma soltanto la precarietà del possesso, in vista del mantenimento del fondo familiare: essa però adduceva alla retrocessione della terra all’originario detentore nell’anno giubilare: i Sionisti, comunque, hanno esplicitamente accolto il vecchio principio in quanto stabiliva la precarietà della disponibilità terriera. I terreni del Keren Kayemed sono così concessi soltanto in transitorio uso ai gruppi di coloni.
La ricordata deliberazione del congresso di Londra dispone questa politica fondiaria — non solo in vista di assicurare l’insediamento di agricoltori ebrei, anche se privi di mezzi, e di salvaguardare gli interessi della mano d’opera ebraica — ma anche per assicurare la coltivazione dei suolo. Questo accertamento della tempestiva utilizzazione della terra è indispensabile sotto vari riguardi, e anche in vista dei principio posto dal diritto musulmano (e accolto dalla legislazione positiva palestinese) per cui la terra non coltivata entro un triennio dall’acquisto, diventa proprietà dello Stato: un versetto del Corano determina che la terra appartiene a colui che l’ha dissodata, irrigata, vivificata.
Indubbiamente la condizione di fondi con proprietà ebraica e mano d’opera araba (qualunque sia la situazione generale del mercato del lavoro) non significa risoluzione del problema ebraico, non significa costituzione di una Palestina ebraica; cosi come tale problema non sarebbe risolto dalla proprietà ebraica dell’impresa industriale con salariato non ebraico. Gli ebrei non si radicano alla terra se si ha semplicemente la proprietà ebraica della terra ed è araba la mano d’opera: l’ebraicità della proprietà terriera come di quella industriale può svanire con grande facilità e con la massima rapidità. La colonizzazione ebraica del tipo che qui consideriamo con proprietà non coltivatrice, facilita in sommo grado l’afflusso di capitale ebraica in Palestina, in quanto tale capitale vada alla ricerca di un buon reddito, così come va avvenendo negli ultimi tempi con la rapida estensione degli aranceti: tale colonizzazione è in parte prezioso strumento per attenuare situazioni critiche transitorie determinate da squilibri momentanei nella disponibilità dei fattori produttivi, ma non ha in sé il significato, il compito della rinnovazione di Israele e della creazione di una Palestina veramente ebraica. Non si può pensare che il risorto Israele derivi semplicemente e totalmente da gente che si insedi sulle rive dal Giordano per fare buoni affari.
Accanto alla colonizzazione così svolta su terre acquistate speculativamente da capitali ebraici, si può presumere debbano svilupparsi in avvenire su dagli attuali coloni proletari che coltivano le colonie sioniste, un altro tipo di colonizzazione, quello della piccola proprietà coltivatrice creata mediante risparmio lentamente costituito attraverso il tempo, attraverso il faticoso lavoro della prima generazione degli immigrati. Il desiderio, la fame di terra è fenomeno consueto fra la gente agraria di ogni paese: si può presumere che una tale fame sorga anche fra gli Ebrei giunti negli ultimi anni in Palestina e che ora fecondano la terra procurata dal Keren Kayemed per mezzo dei denari raccolti fra gli ebrei della Diaspora. Forse nella formazione di questa piccola proprietà coltivatrice, forse nella formazione di molte famiglie, le quali — secondo la bella espressione del Libro dei Maccabei — vivano ciascuna sotto il suo fico e sotto la sua vite, sta l’avvenire. della Palestina ebraica.
Le affittanze collettive
Di fronte a queste forme di colonizzazione ebraica, basate sulla proprietà privata del suolo, stanno le forme basate sulla proprietà collettiva. Il Keren Kayemed, coi fondi laboriosamente raccolti tra gli ebrei del mondo intero, ha acquistato gradualmente una cospicua proprietà fondiaria, distribuita in ogni parte della Palestina, ma principalmente in alcuni punti della Giudea, nei pressi di Giaffa, fra Tel-Aviv e Gerusalemme e poi a settentrione nella pianura di Izreèl e più a nord ancora nei pressi del Lago di Tiberiade. Il Congresso sionista tenutosi a Londra nel luglio 1920 — riaffermando un principio che già era stato posto anteriormente —ha solennemente determinato che le terre acquistate dal Keren Kayemed, dal Fondo Nazionale ebraico, debbano rimanere inalienabile proprietà del popolo di Israele. Le terre devono essere cedute (sia per uso agricolo che per costruzione urbana) unicamente in affittanza, in concessione temporanea. Questo principio scrupolosamente mantenuto si riannoda con una delle basi del diritto fondiario talmudico: si può rammentare quanto è scritto nel Levitico: «Le terre non si venderanno per sempre, perché la terra è mia e voi state da me come forestieri ed avventizi». Questa norma antica veramente non importava la proprietà collettiva della terra, ma soltanto la precarietà del possesso, in vista del mantenimento del fondo familiare: essa però adduceva alla retrocessione della terra all’originario detentore nell’anno giubilare: i Sionisti, comunque, hanno esplicitamente accolto il vecchio principio in quanto stabiliva la precarietà della disponibilità terriera. I terreni del Keren Kayemed sono così concessi soltanto in transitorio uso ai gruppi di coloni.
La ricordata deliberazione del congresso di Londra dispone questa politica fondiaria — non solo in vista di assicurare l’insediamento di agricoltori ebrei, anche se privi di mezzi, e di salvaguardare gli interessi della mano d’opera ebraica — ma anche per assicurare la coltivazione dei suolo. Questo accertamento della tempestiva utilizzazione della terra è indispensabile sotto vari riguardi, e anche in vista dei principio posto dal diritto musulmano (e accolto dalla legislazione positiva palestinese) per cui la terra non coltivata entro un triennio dall’acquisto, diventa proprietà dello Stato: un versetto del Corano determina che la terra appartiene a colui che l’ha dissodata, irrigata, vivificata.
La politica fondiaria sionista, affermata a Londra, mira anche a «combattere la speculazione». Concentrando gli acquisti in massima parte in un solo organo, evita o attenua pericolose concorrenze e il presentarsi in Palestina di quei fenomeni di febbre speculativa e sopravalutazione del suolo che si sono presentati tanto spesso nei paesi di nuova colonizzazione, nell’Argentina come negli Stati Uniti e nell’Australia. Il fermo principio della proprietà collettiva assicura al Keren Kayemed il pingue incremento di valore — l’Unearned increase — che è frutto della complessiva opera dei pertinaci coloni, incremento di valore che è stato oggetto altrove di tanti dibattiti e contrasti e di sottili istituzioni tributarie.
Le colonie create dal Keren Kayemed sono adunque affittanze collettive. Il patto colonico è variamente regolato secondo i casi, secondo il tipo e la posizione delle terre, secondo la possibilità della coltura e le condizioni degli stessi coloni. Importa spesso anticipazione di mezzi colturali e una variabilità graduale dei canoni d’affitto, mano mano che sono vinte le prime difficoltà. Il Fondo cura direttamente le iniziali operazioni di risanamento, prosciugamento e adattamento dei terreni, il collegamento colle grandi strade o linee ferroviarie, la provvista dell’acqua potabile e talora anche dell’acqua irrigatoria.
Le colonie create dal Keren Kayemed sono affittanze collettive e richiamano perciò alla mente il grande movimento che — designato appunto con la dizione «affittanze collettive» — si svolse fra il 1905 e il 1910 in parecchie plaghe d’Italia, specialmente sotto l’egida del partito cattolico e del partito socialista; movimento rispetto al quale fu ripetuta la parola pronunciata da Maffeo Pantaleoni, dieci anni prima, nel suo saggio sui principii della cooperazione : «L’idea cooperativa e un’idea virile»; «è l’idea di una gente che non vuole sottostare alle condizioni di salario richieste da un impresario» ; «è un’idea di emancipazione e di ribellione». Ricordo fra gli studi che furono dedicati a questo nuovo movimento operaio italiano, l’inchiesta notevolissima condotta nel 1906 dalla Federazione Italiana dei Consorzi agrari di Piacenza, sotto l’egida dell’on. Raineri, inchiesta che portò ad una fine analisi delle caratteristiche tecniche ed economiche del diversi tipi di affittanze.
Percorrendo le campagne della Giudea e della Galilea per visitare alcune delle nuove affittanze collettive ebraiche, mi sono ritornate alla mente le parole di Maffeo Pantaleoni e anche le indagini della nostra Federazione dei consorzi agrari, poiché l’attuale fenomeno ebraico, in diversa guisa, si riconnette con il fenomeno italiano e parecchi fra i problemi che ora si dibattono in Palestina intorno alla gestione delle colonie, sono quei medesimi che erano posti in evidenza dai nostri studiosi venti anni fa.
Affittanze a condizione divisa
e affittanze a condizione unita
Anche nella Palestina ebraica si hanno i due tipi di organizzazione agraria. Si ha il moshav ovedin (letteralmente «sede di lavoratori»), dove il terreno è diviso in lotti, generalmente di pari estensione, attribuiti ciascuno a una famiglia che cura per proprio conto, in maniera autonoma, la coltivazione e l’erogazione dei prodotti. E si ha la chevuzah (riunione, gruppo), colonia dove il lavoro della terra avviene in comune e in comune anche si svolge la vita degli agricoltori e della vita si sopporta il costo.
Le colonne ebraiche sono ormai molto numerose in Palestina: raggiungono forse il centinaio. Sono svariatissime di ampiezza (la maggiore Petach Tikvah, conta 6000 abitanti e alcune scendono fino a una cinquantina di persone), svariatissime di ambiente agricolo, di coltura, di tipo tecnico e anche di organizzazione economica. Abbiamo accennato alle due forme direttive fondamentali, ma se si potesse scendere ad una analisi, la distinzione sarebbe più complessa, poiché si hanno molte differenze particolari di organizzazione; l’assetto è tuttora mutevole, talora ha carattere sperimentale. Queste varietà e variabilità di ordinamento corrispondono in parte alle condizioni di ambiente e allo svolgimento della evoluzione agricola, dalla tecnica primitiva alla progredita; in parte anche corrispondono alla ricchezza intellettuale e spirituale di queste masse ebraiche, alla vigoria dei sentimenti che le animano, al desiderio di tentare vie nuove. In una bella monografia sulle colonie a conduzione unita (The Communistic Settlement in the Jewith Colonisation in Palestine) dovuta all’economista E. Elazari-Volcani, trovo il seguente profilo psicologico dei nuovi agricoltori palestinesi:
«Noi non abbiamo una vita ebraica di villaggio, dominata da tendenze conservative e attaccamento alle tradizioni: non abbiamo vecchi villaggi in cui nessuna voce esterna possa giungere e in cui durante intere generazioni si viva separati dal resto dell’umanità. Noi siamo una tribù errante e da duemila anni siamo staccati dal suolo. Nella nostra lunga captività, l’effervescenza [?] è divenuta per noi una seconda natura. I nostri nervi sono diventati corde musicali che vibrano ad ogni soffio di vento, come l’arpa di Davide che, si dice, suonava da se stessa. I nostri coloni sono i più eccitabili e i più indisciplinati dei mortali. Essi fanno, coi loro corpi stessi, un ponte, un passaggio, da un presente instabile ad un avvenire sicuro e calmo».
Questa psicologia spiega l’effervescenza spirituale e intellettuale che prevale nelle aftittanze a condizione unita, nelle cosiddette «colonie comuniste». In esse gli associati hanno tutto in comune: capitale, lavoro, proventi; al lavoro prestato dal singoli non corrisponde il conteggio di un salario nemmeno a titolo di anticipazione. Così la vita si svolge in comune anche nei rispetti dei consumi ed in comune vengono presi i pasti. Nella colonia di Daganiah (Bassa Galilea) che io ho visitata, rimane almeno la proprietà individuale degli indumenti e di altri oggetti di uso; i figli sono custoditi lungo le ore del giorno in asili e scuole della colonia, ma alla sera tornano presso i genitori; in altre colonie, fra cui è tipica quella di Ein Harod, il carattere comunista è ancora più pronunciato e i figliuoli rimangono alla notte presso le istituzioni comuni. Appare singolare la dimensione assunta da un simile organismo, poiché tale colonia numera 400 abitanti.
Il libro del Volcani traccia le complesse vicende — che qui non si possono riepilogare – di talune fra queste colonie comuniste; di qualche vicissitudine mi è giunta l’eco anche nella mia cisita. Alcuni contrasti, alcune difficoltà pratiche e amministrative ricordano i fenomeni che hanno segnato la vita delle affittanze collettive emiliane e romagnole. Ma tuttavia questi organismi palestinesi vivono. La contabilità in qualche anno e in qualche colonia — come appare sia dal volume del Volcani che dal poderoso rapporto dell’Esecutivo Sionista che ho sott’occhio — segna talora dei disavanzi: a Daganiah mi è stato assicurato però che le divergenze fra entrate e spese negli anni sfavorevoli, sono colmate essenzialmente mediante variazioni nel tenore di vita e non con mezzi esterni. I colonisti di Daganiah con cui ho parlato, sembravano ascoltare con qualche maraviglia le mie obiezioni «piccolo borghesi» al loro regime e mi hanno dichiarato che il lavoro è prestato volonterosamente da tutti anche se non vi ha speciale distinzione di rimunerazione e che non vi sono eccedenze individuali di consumo anche non essendovi separazione di costi, di dispendi. Sembra che il fattore spirituale sia valido tanto da mantenere potente la coesione: efficace così da stimolare pertinace il lavoro e da rendere evidente dinanzi ad ognuno il bene comune e muovere tutti verso il fine della nuova società ebraica.
Fra le colonie comuniste si hanno condizioni diverse nei riguardi del sentimento religioso degli adepti, sentimento che forse non ha primaria importanza per mantenere saldi questi aggregati. Le affittanze a conduzione unita sono evidentemente organismi delicati che possono sorgere e anche svilupparsi in date condizioni di spirito e di ambiente, ma la cui sorte come istituzioni sociali a larga portata sembra debba essere precaria. È probabile che esse non siano la base duratura della colonizzazione ebraica, della formazione della nuova società e che questa sorga piuttosto dalle affittanze divise e che queste, ancora, siano il vivaio di piccoli proprietari. Ma, comunque, oggi le colonie collettiviste sono un caratteristico prodotto della eccezionale e fervida vita che si vive in Palestina. Quando in un avvenire remoto la Palestina ebraica avrà raggiunto un assetto definitivo e saldo e di grandi proporzioni, con un milione od anche con qualche milione di abitanti, le colonie collettive saranno ricordate forse con rimpianto come associazioni in cui il lavoro e la vita si svolgevano con la gioia e la fervidezza che derivano dalla passione e dalla tensione verso un fine elevato.
Nello stadio transitorio che ora attraversa la Palestina israelitica, le affittanze a conduzione unita hanno anche una funzione pratica assai ragguardevole, quella di essere quasi dei poderi-scuola per taluni degli inesperti coloni nuovamente giunti in Palestina; le colonie comuniste in prevalenza svolgono una coltura estensiva, più semplice, e in esse gli agricoltori di nuova formazione acquistano le cognizioni pratiche loro necessarie per l’ulteriore opera rurale, anche se di carattere intensivo.
Poche parole soltanto bastano a designare il carattere economico delle colonie a conduzione divisa, dove il terreno coloniale è diviso in lotti generalmente di superficie eguale, coltivati dalle singole famiglie, ciascuna con propri mezzi e con propri risultati. Questi, naturalmente, differiscono da lotto a lotto, anche secondo la capacità e la solerzia dei coltivatori; attraverso il tempo i lotti vanno differenziandosi anche per il diverso sviluppo che assumono le dotazioni di scorte vive e morte. Nella colonia di Nahalal, che ho potuto visitare mentre percorrevo la strada fra il Lago di Tiberiade e Caifa, i lotti sono tutti di cento dunam (un dunam è pari circa a 900 metri quadrati); la colonia è in via di rapido sviluppo poiché intorno al nucleo primitivo vanno sorgendo nuove dimore di contadini e nuove zone si acquistano e si pongono a coltura. Non lungi dall’aggregato coloniale, a Nahalal è stato piantato un vasto bosco di eucalipti, esso pure diviso in lotti, ciascuno dei quali assegnato ad una famiglia colonica. La conduzione del terreno è nettamente divisa, assicurandosi l’autonomia di vita e di opera agli agricoltori, ma molti sono i servizi comuni, molte le funzioni attribuite all’amministrazione sociale, e questa dirige in fatto la tecnica culturale in tutta la colonia.
Nelle colonie, dell’uno e dell’altro tipo, come in tutta la Palestina ebraica, emerge la grande e devota cura che è dedicata alla formazione fìsica, spirituale ed intellettuale della nuova generazione. L’occhio del visitatore è sempre attratto con simpatia dai graziosi edifici dove hanno sede le case dei bambini e le scuole. La nuova generazione sorge florida e ridente; la vita attiva dei campi, che dura generalmente ormai da parecchi anni, va trasformando anche il fisico degli adulti: i nuovi agricoltori sono già di un tipo assai diverso da quello degli Ebrei che vivono nelle città europee.
RICCARDO BACHI
d.
L’industria e il commercio
IV.
L’industria e il commercio
IV.
La Stampa, 1ª ed.
Anno LXII, n. 50
Anno LXII, n. 50
martedì, p. 5
3 marzo 1928
L’economia della Palestina presenta svariate analogie con quella dell’Italia; l’agricoltura è, come in Italia, assai ineguale di tipo e di prodotto da plaga a plaga e produce in larga misura vettovaglie squisite, ma a scarso tenore nutritivo, di tipo voluttuario, con domanda che a un dato punto diventa rigorosamente rigida. Come l’Italia, la Palestina è paese privo di materie prime, in cui le condizioni fondamentali di ambiente non sono propizie allo svolgimento di attività industriale. Anche la Palestina antica era presumibilmente priva di industrie di una qualche entità. Gli accenni che intorno all’opera manifatturiera sono contenuti nella Bibbia, nel «Libro dei Re» e nelle «Cronache», specialmente riguardo alla economia politica di Salomone, sono probabilmente leggendari. L’industria antica era limitata, rivestiva la forma di artigianato ed operava in vista essenzialmente del mercato interno; le fonti antiche non ebraiche segnalano pochissimi esempi di prodotti industriali giudaici, che fossero oggetto di esportazione dal paese; si tratta forse soltanto del bitume del Mar Morto e di alcuni articoli di profumeria.
La Palestina manca di carbone, di petrolio, di metalli. Si fanno tentativi per talune colture di piante industriali, quali il tabacco, il cotone, la canna da zucchero, la barbabietola. Ma vi e poca probabilità che l’elaborazione di questi prodotti interni possa di per sé costituire un grande nucleo di attività manifatturiera. Il Governo palestinese ha ultimamente concesso lo sfruttamento del Mar Morto per l’estrazione della potassa e di altri sali contenuti nelle acque di questo grande lago amaro. L’impresa che sta per sorgere avrà indubbiamente un’altissima importanza economica ed alimenterà una larghissima esportazione. Non avrà forse però una grande funzione — almeno immediatamente — nella formazione della Palestina ebraica, poiché nell’Industria chimica l’elemento «lavoro» non ha entità proporzionale pari a quella che presenta per molti altri rami di attività manifatturiera; gli stabilimenti che stanno per sorgere sulle desolate spiagge del grande lago — e che forse danneggeranno la solennità del triste suggestivo paesaggio — non recluteranno grandi masse di operai e non recheranno sollievo apprezzabile alla situazione critica del mercato del lavoro.
Molto si può attendere invece dalla elettrificazione del Giordano, ora concessa all’impresa Ruthenberg, che apporterà l’irrigazione a molte terre aride, lasciando pure un certo margine di energia per l’attività industriale. L’avvenire industriale della Palestina è probabilmente assai considerevole, ma non già rispetto all’elaborazione di materiali interni, bensì — come avviene in Italia — per l’elaborazione di materie prime importate. Al pari dell’Italia, la Palestina è dotata di un’ottima mano d’opera: gli intelligenti e pertinaci lavoratori ebrei costituiscono una impareggiabile mano d’opera qualificata, enormemente superiore a quella araba, che unica esiste nei paesi vicini. Non occorre ricordare la capacità organizzativa, l’attitudine commerciale che sono tipiche della gente ebrea. È possibile e probabile che la Palestina possa divenire la sede per l’elaborazione di parte almeno del cotone, della lana, delle pelli e di altre materie prime, che così copiose sono prodotte nella Siria, nella Mesopotamia, nell’Egitto. A Caifa, già si delinea un notevole movimento industriale; ad opera ebraica sono ultimamente sorte imprese considerevoli per l’esercizio delle industrie del sapone, dei cementi, della macinazione, del pastificio.
Qualche istituzione è già sorta, a cura dei sionisti, per stimolare l’attività industriale. È notevole soprattutto il Technicum di Caifa, scuola industriale bene dotata, che potrà forse in avvenire trasformarsi in un vero politecnico per la formazione di ingegneri, ma che ora impartisce una istruzione di un tipo che potrebbe dirsi intermedio fra scuola secondaria e superiore, diretta specialmente a formare il personale superiore per l’industria delle costruzioni; è progettato l’impianto di una sezione per l’ingegneria meccanica ed elettrica. A Gerusalemme è stata istituita una buona scuola di arte industriale, che è stata intitolata a «Begalel», il personaggio biblico cui Mosé affidò la costruzione del candelabro e di altri arredi per l’arca santa (Esodo, XXXVI). Intorno a questa scuola si è svolta una notevole industria artistica che produce articoli graziosi, di vario tipo, e ha richiamato in vita antiche forme tradizionali ebraiche per oggetti di uso cultuale e domestico; questa industria potrebbe trovare uno sbocco più largo dell’attuale, non solo fra i turisti, ma anche nella Diaspora.
Turismo
Come in Italia, nella Palestina, industria di fondamentale importanza è quella del forestiero. Come l’Italia, la Palestina è meta di pellegrinaggi, mossi da sentimento religioso. La Palestina non ha le attrattive delle bellezze artistiche che offre l’Italia: né il culto cristiano né il culto ebraico hanno accumulato nei santuari e nelle chiese opere d’arte insigni; forse la sola opera d’arte veramente grande è la Moschea di Omar, sorta sulle rovine del Tempio di Salomone; uno dei gioielli mirabili dell’arte araba. Come l’Italia, la Palestina offre però la attrattiva solenne dei ricordi storici, il fascino delle grandi, delle sante memorie di uomini e di eventi che tanto hanno influito sulle sorti dell’umanità.
Come l’Italia, la Palestina presenta il sorriso di paesaggi di rara bellezza; in qualche luogo ed in talune stagioni oltre un clima dolcissimo, una mite primavera, una flora deliziosa che rievoca la poesia del Cantico dei Cantici; Tel Aviv, Tiberiade, Caifa possono divenire gradevoli stazioni invernali, non inferiori sotto qualche riguardo a Luxir ed Assuan. La Palestina già offre una certa organizzazione turistica, presenta come arterie principali delle grandi strade automobilistihce ben asfaltate. Quando sarà ulteriormente progredita la trasformazione della vita urbana e l’opera tutta del nuovo regime governativo, e sarà costruito un buon accesso marittimo, l’industria dei ferestieri potrà trovare più ampio sviluppo ed acquistare importanza anche nei suoi riflessi sulla produzione agraria e sulla produzione commerciale.
Movimento commerciale
Se Caifa ha un certo avvenire industriale, assai più rilevante si delinea l’avvenire per il movimento commerciale. Il Golfo di Caifa, che così ridente si presenta a chi lo contempla dall’alto del Monte Carmelo, è un porto naturale che attende solo gli apprestamenti necessari per lo sviluppo del traffico, onde divenire uno dei punti di passaggio fra l’Occidente e l’Oriente. La posizione di Caifa ha grandissima rilevanza nella strategia commerciale dell’Impero britannico, poiché offre una via di comunicazione che può essere sussidiaria ed anche rivale del Canale di Suez per il movimento verso l’India e l’Estremo Oriente. Non occorre notare l’importanza che avrà la ferrovia Caifa-Bagdad. Per l’esportazione del petrolio della Mesopotamia è prevista una canalizzazione facente capo al porto di Caifa. Sì può prevedere che questo assuma in futuro un’importanza primaria nel movimento del Levante e rivaleggi così con quello di Smirne. Risorgono ora, in parte, condizioni simili a quelle che in millenni lontani posero il movimento commerciale fra l’Oriente e l’Occidente nelle mani della Fenicia.
La capacità organizzativa ebraica nell’opera commerciale rifulge magnifica riguardo all’esportazione di due prodotti tipici della Palestina, degli aranci e dei vini liquorosi. Gli aranci hanno acquistato una posizione primaria sul mercato britannico, grazie specialmente alla accuratissima selezione cui sono sottoposti, in vista di spedire all’estero unicamente articoli finissimi, perfetti anche per forma, dimensione, assenza di macchie, regolare maturazione ecc.; si afferma che questa selezione è ripetuta fin tre volte con rigoroso scrupolo. Così gli aranci palestinesi — e specialmente la varietà «shamooti» ricca dì succo, di bella forma e contenente un solo seme — sono bene accreditati e ricercati.
Per i vini, allo scopo di assicurare tipi ottimi e uniformi nel tempo, quindi facilmente esitabili, si è concentrata la produzione, per gran parte delle uve palestinesi, nel grande stabilimento enologico, sorto a Rfsckon-le-Zlon. presso una coionia costituita ne! 183dal barone Rotschild. Lo stabilimento è di dimensioni imponenti; le cantine contengono botti complessivamente capaci di oltre 73.290 ettolitri; nella stagione della vendemmia vengono trattati in media 250.000 Kg. di uva al giorno e nelle buone annate si ottengono da 30 a 40.000 ettolitri di vino. I vini sono particolarmente di tipi fini, in parte analoghi ai migliori vini spagnoli e l’esportazione ne è molto diffusa.
Moneta
La Palestina ha conosciuto durante la guerra tutti i malanni dell’inflazione monetaria, ma è stata immune dai perturbamenti che flagellarono dopo la guerra tanta parte del mondo. Questa propizia condizione costituisce un’eccezione, che merita di essere ricordata in questo nostro tempo di tante anormalità circolatorie. Il 27 novembre 1917, poche settimane prima della occupazione di Gerusalemme, un proclama dei Corpo d’Armata egiziano dichiarò la moneta egiziana, moneta legale della Palestina; i biglietti turchi cessarono di aver circolazione legale, e rapidamente la moneta egiziana acquistò il dominio assoluto nella circolazione palestinese. Dapprima era moneta d’argento o moneta divisionaria, poi biglietti I bigletti egiziani sono emessi dalla «National Bank of Egypt» con una copertura in massima parte formata da Buoni del Tesoro britannici. Lungo il decennio in cui si svolsero le grandi tragedie e le grandi resurrezioni monetarie, la Palestina si è trovata nella situazione rara di non avere una propria storia monetaria e di prendere a prestito la moneta da un altro paese. Un nuovo congegno circolatorio è stato adottato soltanto in questi ultimi mesi, nell’autunno 1927, con la creazione della lira palestinese, pari alla lira sterlina, ma divisa (a somiglianza della lira egiziana) in millesimi. La lira palestinese aurea non è stata effettivamente coniata; circolano solo dei sottomultipli in argento, nichelio e rame e dei biglietti emessi dallo Stato e aventi corso legale; la stabilità di fatto nel corso dei cambi verso l’Inghilterra è proseguita sebbene, per quanto risulta dalla breve ordinanza monetaria, non siano date esplicite norme per assicurare la debita elasticità del sistema: probabilmente la variabilità di fatto della massa dei biglietti secondo i bisogni del mercato, è raggiunta attraverso l’opera_della «Barclay’s», la banca cui è affidato il servigio di tesoreria e che è Agente del Dipartimento Governativo dell’emissione (Palestine Currency Board). Si può presumere che in avvenire la Palestina avrà un istituto di emissione per il reggimento del movimento monetario e creditizio; ma non è maturo ancora il meccanismo dell’economia palestinese in relazione alle condizioni politiche e sociali del paese. Il giro delle operazioni di credito fa tuttora capo prevalentemente a istituti stranieri.
L’attuale crisi
Il controllo sulla vita economica della Palestina ebraica da parte degli organi sionisti è meno ampio di quanta potrebbe presumersi dalla considerazione dei compiti spettanti al Keren Kaymed e al Keren Hayesod. Ciò perché la dimensione dell’offerta di due dei fattori produttivi — capitale e lavoro — sfugge in gran parte all’ingerenza di questi organismi.
L’offerta di nuovo capitale è essenzialmente data dal flusso di denaro, dalle oblazioni che a vario titolo e in varia guisa sono fatte per la causa sionista dagli ebrei della Diaspora. Questo flusso non può evidentemente essere regolato dagli organismi riceventi; essi talora possono rendere più insistente, attraente e persuasiva la propaganda, ma i risultati reali di questa dipendono in massima parte dalle condizioni di spirito ed, ancor più, dalle condizioni economiche degli ebrei della Diaspora; quando una crisi infierisce negli Stati Uniti, nel Canada, nell’Africa Meridionale, le ripercussioni sono immancabili e gravi nella Palestina.
Anche l’offerta di braccia è determinata prevalentemente da circostanze proprie del mercato del lavoro in alcuni Paesi esteri, e specialmente da eventi politici e sociali che si producono nei Paesi dell’Europa Orientale dove è più fitta la popolazione ebraica. Anche l’immigrazione non obbedisce a stimoli determinati dalle previsioni sulle future vicende della Palestina: essa è presso che incontrollabile; solo dopo che si è dilatata soverchiamente è possibile adottare, in ritardo, dolorose misure restrittive.
L’incontrollabilità dell’offerta forestiera di capitale e lavoro non è fenomeno proprio soltanto dell’odierna Palestina ebraica. È fenomeno generale nei Paesi nuovi, il quale imprime particolari lineamenti alla dinamica economica del mondo coloniale. Nei Paesi nuovi in una certa fase di sviluppo, le alternative di crisi e febbre speculativa sono più pronunciate e gravi che nei Paesi vecchi.
Nel caso della Palestina ebraica si può notare come il flusso di denaro non risponda prevalentemente alle vicende del saggio di frutto nei mercati vecchi e nei mercati nuovi, ma dipenda anche da fattori spirituali: la passione sionista dovrebbe perciò determinare nuove rapide azioni compensatrici ed attenuatici della crisi, promuovendo — quando vi ha un eccesso di braccia, recentemente giunte alla terra dei Padri — una pronta dilatazione nel trasferimento di capitale, che ripristini le condizioni di equilibrio e adduca alle proporzioni tipiche più appropriate per la produzione.
Attualmente la Palestina è in condizioni di crisi determinata dalla soverchia ampiezza con cui si è svolta la immigrazione lungo gli anni 1924-25-26. In questi tre anni l’immigrazione è stata rispettivamente di circa 13.500, 34.600 e 14.000 individui; l’eccesso della immigrazione nel 1925 congiunto con un certo ristagno nell’arrivo di denaro sionista ha determinato un grave squilibrio economico, le cui manifestazioni sono varie ed evidenti, per quanto si delinei ultimamente una qualche attenuazione. La disoccupazione è assai sentita, specialmente nell’industria edilizia, e il senso di disagio è diffuso, malgrado le elargizioni benefiche e la distribuzione dei sussidi di disoccupazione.
Non si deve certo attribuire una soverchia importanza a questa crisi, il cui sopraggiungere è connesso con circostanze dinamiche transitorie, non con caratteri fondamentali definitivi dell’economia palestinese. Il tipo stesso prevalente nella immigrazione ebraica accresce la mobilità interprofessionale della mano d’opera e l’agricoltura col suo progrediente sviluppo presenta una grande elasticità nella domanda di braccia. Grandi possibilità di impiego si hanno anche nei lavori pubblici da proseguire per la sistemazione del Paese.
RICCARDO BACHI
e.
La nuova città
La nuova città
La Stampa,
Anno LXII, n. 54
Anno LXII, n. 54
sabato, p. 5
3 marzo 1928
Gli Ebrei, da duemila anni nella Diaspora, vivono concentrati nei centri urbani. Attraverso i secoli si è formata la caratteristica città ebraica del passato: il ghetto. Il ghetto era una piccola città tollerata, sopportata e talora non sopportata, entro una grande città ostile: piccola città abitata da gente che talvolta cercava di eclissarsi nella tema di derisioni, di minacce, di percosse; piccola città dove si svolgevano solo pochissime forme di attività economica, forzatamente scelte fra le più umili e talora fra le più spregiate, dove si viveva una vita cui il senso stesso della incertezza, della trepidazione dava un carattere di intimità, di fraternità, vita estremamente angusta, tale da deprimere molte energie, da non consentire appieno lo sviluppo della personalità umana.
V.
Gli Ebrei, da duemila anni nella Diaspora, vivono concentrati nei centri urbani. Attraverso i secoli si è formata la caratteristica città ebraica del passato: il ghetto. Il ghetto era una piccola città tollerata, sopportata e talora non sopportata, entro una grande città ostile: piccola città abitata da gente che talvolta cercava di eclissarsi nella tema di derisioni, di minacce, di percosse; piccola città dove si svolgevano solo pochissime forme di attività economica, forzatamente scelte fra le più umili e talora fra le più spregiate, dove si viveva una vita cui il senso stesso della incertezza, della trepidazione dava un carattere di intimità, di fraternità, vita estremamente angusta, tale da deprimere molte energie, da non consentire appieno lo sviluppo della personalità umana.
In contrapposizione al ghetto, alla vecchia città ebraica del passato sta la città nuova, che si chiama Tel Aviv, «Collina della primavera». Gli Ebrei nella Palestina hanno saputo trovare denominazioni gentili per le nuove dimore, per le nuove colonie: accanto alla «Collina della primavera» sta Baith Galim, «Figlia delle Onde», la sorridente cittadina sorta alle porte di Caifa, ai piedi del Carmelo; fra le colonie vi è Mikveh Israel, «Speranza di Israele» ; Petach Tikvà, «La porta della speranza»; Rosh Pina, la «Pietra di fondazione»; Kfar Yeladim, «Il villaggio dei bimbi»; Ayeleth Hashahar, «La figlia dell’aurora»; Mishmar Hayarden, «La sentinella del Giordano».
Tel Aviv è la città nuova, tutta ebraica, superba affermazione di volontà, d’energia. È sorta alle porte di Giaffa, a poca distanza dal mare, su di una duna sabbiosa. Le pubblicazioni sioniste riproducono volentieri la veduta dell’area dove è oggi la città quale era prima dal 1909, e la veduta della posa della prima pietra per il quartiere, che sembrava solo destinato a dimora di qualche impiegato o mercante di Giaffa; le storiche fotografie mostrano la desolata e sterile distesa di arena. Sulla sabbia è sorta la città giardino, tutta bella, nitida e ridente, colle larghe strade e i mille villini. Percorrendo i «boulevards» di Tel Aviv si presentava alla mia mente il ricordo di Merano, di luoghi varii di cura e di riposo sorti negli ultimi decenni sui nostri monti e sulle nostre spiaggie. Ma pur nella grazia della sua costruzione, Tel Aviv non è luogo di calma, bensì di attiva opera; è grande centro di affari, di commercio e, in tenue misura, anche di industria: è la vera capitale morale della Palestina ebraica.
La città si è formata con rapidità e impulso simili a quelli che vantano alcune città transoceaniche, e le proporzioni del suo sviluppo son degne di nota negli annali dell’urbanesimo. Fondata nel 1909, essa contava dieci anni dopo soltanto 2.862 abitanti e non era ancora prevedibile la sorte che l’attendeva con il grande incremento che stava per prendere la Palestina ebraica: nel 1922 gli abitanti erano 6.506, nel 1923 16.254, nel 1924 21.610 e nel 1926 si valutavano ad oltre 45.000. La crisi arrestò poi l’ascesa, ma è presumibile che la stasi sia transitoria. La rapidità dell’espansione ha dato luogo ai consueti fenomeni che accompagnano le grandi dilatazioni dei centri urbani; si è avuta una notevole febbre commerciale rispetto ai terreni, con rapidi accrescimenti nei prezzi e casi notevoli di speculazione edificatoria. I servizi pubblici sono bene organizzati e, malgrado la crisi, la vita cittadina pulsa attiva.
Qualche altro nucleo nitidamente ebraico si è formato negli ultimi anni per residenza o per affari, od è in preparazione; si può rammentare il bel sobborgo di Talpiot nel pressi di Gerusalemme, Chiriat Sherauel, quartiere alberghiero a Tiberiade, Bath Galim sobborgo grazioso, tipo città giardino, alle porte di Caifa. In mezzo alla pingue valle di Izreèl è predisposta la costruzione di un centro di affari, Afuleh, connesso con la grande attività rurale della zona; esso è però ancora allo stato primordiale, piccolo gruppo di baracche e caseggiati intorno alla stazione ferroviaria.
Movimento intellettuale
Gli Ebrei in ogni paese sono inclini non solo all’attività economica, ma anche all’opera alta del pensiero, ed hanno sempre avuto parte mirabile nella attività scientifica. Fra gli attuali immigrati in Palestina dominano decisamente gli intellettuali che hanno recato seco il fervore della vita di pensiero.
L’Università ebraica di Gerusalemme — fondata da appena un triennio — è già divenuta mirabile nucleo ed organo propulsore di indagini dottrinali. Non è un’università nel senso inteso fra noi, dove si svolga un definito curriculum di lezioni, secondo regolari schemi, per preparare gli studenti all’ulteriore opera scientifica e didattica e all’attività professionale; è, invece, per ora prevalentemente un organo di ricerche. Vi esistono cattedre, si tengono corsi e serie di letture, ma non hanno luogo esami né si rilasciano diplomi. L’Università di Gerusalemme è cosi un aggregato di studiosi, raccolto intorno ad alcuni scienziati eminenti; i risultati delle indagini scientifiche sono consegnati in diverse serie di pubblicazioni, tutte redatte in ebraico. I campi di attività intellettuale sono ancora limitati; si hanno Istituti di microbiologia, di igiene, chimica, storia naturale palestinese (strettamente connesso con la Stazione agricolo-sperimentale di Tel Aviv), l’istituto di matematica, la Scuola di studi orientali e l’Istituto di studi ebraici; quest’ultimo ha particolare importanza come «centro per il promuovimento della conoscenza scientifica del giudaismo», intesa questa conoscenza in senso assai lato.
L’Università è situata in un bel edificio appositamente costruito sul Monte Scopus, il monte su cui si insediò Tito per le operazioni dell’assedio; esso domina dall’alto Gerusalemme, ed il panorama si allarga ampio e suggestivo sino al Mar Morto. Presso l’Università sarà più tardi la degna sede della Biblioteca Nazionale universitaria; ora essa è malamente accampata in cinque angusti edifici, dove si accalcano numerosi lettori. Alla formazione di questa biblioteca hanno concorso con entusiasmo e cortesia istituti ed uomini di scienza di ogni paese, di ogni stirpe e di ogni fede, con una unanimità di simpatia che è indice di fiducia nell’avvenire del movimento intellettuale palestinese. La biblioteca, nel maggio 1927, già contava 180.000 volumi, di cui 150.000 catalogati. La catalogazione è fatta secondo il metodo Dewey, modificato. Questa cospicua massa libraria abbraccia ogni ramo dello scibile, ma in essa naturalmente la materia giudaica ha un certa preponderanza: si cerca opportunamente di raccogliere a Gerusalemme la massima parte possibile delle pubblicazioni e documenti in cui si è tradotta la storia della gente ebraica e la letteratura israelitica.
Il bilancio della biblioteca per l’anno 1926-27 sale appena a lire egiziane 4.014; sono poco più di 400.000 lire italiane, cifra minima di fronte al vasto compito. Ma il patrimonio librario della biblioteca è essenzialmente integrato da larghi doni. Fra i recenti acquisti emerge quello dell’intera collezione di materiale arabico lasciato dal celebre professor Ignazio Goldziher, della Università di Vienna, raccolta di raro pregio per gli studi islamitici, che potè essere acquistata mediante i mezzi forniti dall’«Associazione delle donne sioniste della Rhodesia». È evidente la convenienza per la scienza degli altri paesi di essere bene rappresentata e conosciuta nel nuovo centro di luce intellettuale che è sorto in Sionne. Il bibliotecario e il vice-bibliotecario — entrambi buoni conoscitori della lingua italiana, e uno di essi allievo di Pio Rajna — mi facevano notare come il materiale italiano non sia molto cospicuo nella biblioteca; ciò malgrado, il cortese invito fatto dal nostro Ministero dell’Istruzione ad istituti e studiosi al momento in cui l’Università di Gerusalemme venne fondata.
La biblioteca pubblica, il Kirjath Sepher, rassegna bibliografica trimestrale, la quale contiene un ordinata elencazione critica di tutte le pubblicazioni fatte in ogni paese intorno agli ebrei ed all’ebraismo, e contiene anche la completa bibliografia di tutto quanto si pubblica in Palestina, in qualsiasi lingua e materia; la massa delle pubblicazioni palestinesi risulta veramente cospicua di fronte alla piccola entità topografica e demografica del territorio.
La varietà e gravità dei problemi economici che segnalano nel momento presente la vita palestinese, dovevano provocare una particolare attività scientifica; si è così costituita la «Palestine Economic Society», che pubblica un bollettino veramente ragguardevole, in cui si succedono studi notevoli sull’economia agraria, sul movimento commerciale, sul movimento operaio, bollettino che meriterebbe la attenzione degli studiosi italiani.
Palestina e Italia
L’Italia ha avuto ed ha tuttora intensi rapporti morali con la Palestina cristiana, rapporti intrecciati e mantenuti specialmente ad opera del Clero; è ben noto quale alta azione svolgano soprattutto i Francescani ed ultimamente anche i Missionari dell’Opera Cardinal Ferrari, non soltanto nei rispetti religiosi, ma anche per l’educazione civile e la diffusione della coltura e della lingua italiana. È una azione che, mossa da intenti spirituali, giova all’espansione dell’italianità. L’Italia ha ripetutamente manifestato la sua simpatia morale e politica per la formazione della Palestina ebraica. Vi è la possibilità e la speranza che i rapporti si intreccino sempre più saldi ed estesi. Con molta opportunità il nostro Governo ha provveduto ad istituire una cattedra di lingua italiana nel Ginnasio-liceo di Tel Aviv e vi ha preposto un professore delle nostre scuole secondarie. Altra cattedra consimile è in preparazione per il Ginnasio-liceo di Gerusalemme, grazie alla iniziativa del Console generale, on. Pedrazzi.
La legge Gentile di riforma all’ordinamento universitario, con principio veramente geniale, dispose nel 1923, l’esenzione delle tasse scolastiche per gli studenti stranieri. Lungo il decorso quadriennio, qualche centinaio di studenti palestinesi affluirono ai nostri Istituti superiori; il movimento fu pure facilitato transitoriamente dal minor costo della vita, derivato dalla svalutazione della lira, ed altresì dalla generosa concessione delle nostre Compagnie di navigazione (Lloyd Triestino e Sitmar) di un ribasso del 75 per cento sul prezzo del passaggio marittimo. Gli studenti palestinesi hanno trovato in Italia benevola accoglienza; ora essi, ritornati in patria, amano il nostro Paese e sono in qualche maniera, rappresentanti e strumenti delta nostra coltura; e me ne diede prova taluno di essi che durante il mio breve viaggio in Palestina, mi fu guida e illustratore prezioso. Però questa migrazione di giovani intelligenze fra la Terra Santa e l’Italia minaccia di diminuire o cessare, non solo perché è cessato lo stimolo risultante dalla anteriore situazione monetaria, ma ancor più perché la franchigia delle tasse scolastiche è stata ridotta alla metà soltanto.
Il movimento commerciale tra l’Italia e la Palestina non è cospicuo. Un rapporto sul mercato e sull’andamento del commercio estero della Palestina, pubblicato dal nostro Istituto Nazionale per l’esportazione (Bollettino del 26 novembre 1927), segna la parte tenuta dall’Italia nelle Importazioni totali al 5% nel 1S85 e al 4,7% nel 1926. Quest’ultima aliquota è forse alquanto in feriore alla realtà per un mutamento intervenuto nella formazione delle statistiche commerciali palestinesi, per cui i dati sono classificati per paesi di provenienza anziché per paesi di origine. Il rapporto citato designa le circostanze che rendono così ristretta la importazione italiana in Palestina. Fra gli articoli più importanti nel 1926 hanno figurato i seguenti:
– Paste alimentari, riso, olio di oliva, burro fresco L.E. 12.575
– Olio di oliva non raffinato, sostanze tanniche L. E. 37.548
– Tessuti di cotone, di lana, misti di lana e cotone, di seta artificiale e naturale, coperte e scialli di seta, cappelli e berretti L.E- 60.630
– Tubi di piombo, macchine agricole e altri prodotti non meglio classificati L.E. 1.350
Non sono grandi cifre. Nei primi anni dopo la guerra il traffico era proporzionalmente più rilevante; delle possibilità notevoli si presentano forse per le automobili, poiché il movimento automobilistico ha primaria importanza in un paese che ha comunicazioni ferroviarie ancora limitate ed abbastanza vasta e in parte buona la rete stradale. Qualche possibilità si potrebbe avere anche per le acque minerali di cui è esteso il consumo e che provengono ora principalmente dalla Francia e dal Belgio. Una maggiore estensione potrebbe forse ancora trovare il collocamento di alcuni indumenti, fra cui le maglierie, le calze, le cravatte, ecc. ed alcuni tipi di dolciumi. Il movimento commerciale troverà certo maggior sviluppo quando sarà superata l’attuale fase di crisi e sarà migliorato l’accesso marittimo. È però necessario che le imprese industriali e commerciali italiane sappiano migliorare la loro organizzazione locale in Palestina se vogliono raggiungere la conquista del mercato.
Tel Aviv è la città nuova, tutta ebraica, superba affermazione di volontà, d’energia. È sorta alle porte di Giaffa, a poca distanza dal mare, su di una duna sabbiosa. Le pubblicazioni sioniste riproducono volentieri la veduta dell’area dove è oggi la città quale era prima dal 1909, e la veduta della posa della prima pietra per il quartiere, che sembrava solo destinato a dimora di qualche impiegato o mercante di Giaffa; le storiche fotografie mostrano la desolata e sterile distesa di arena. Sulla sabbia è sorta la città giardino, tutta bella, nitida e ridente, colle larghe strade e i mille villini. Percorrendo i «boulevards» di Tel Aviv si presentava alla mia mente il ricordo di Merano, di luoghi varii di cura e di riposo sorti negli ultimi decenni sui nostri monti e sulle nostre spiaggie. Ma pur nella grazia della sua costruzione, Tel Aviv non è luogo di calma, bensì di attiva opera; è grande centro di affari, di commercio e, in tenue misura, anche di industria: è la vera capitale morale della Palestina ebraica.
La città si è formata con rapidità e impulso simili a quelli che vantano alcune città transoceaniche, e le proporzioni del suo sviluppo son degne di nota negli annali dell’urbanesimo. Fondata nel 1909, essa contava dieci anni dopo soltanto 2.862 abitanti e non era ancora prevedibile la sorte che l’attendeva con il grande incremento che stava per prendere la Palestina ebraica: nel 1922 gli abitanti erano 6.506, nel 1923 16.254, nel 1924 21.610 e nel 1926 si valutavano ad oltre 45.000. La crisi arrestò poi l’ascesa, ma è presumibile che la stasi sia transitoria. La rapidità dell’espansione ha dato luogo ai consueti fenomeni che accompagnano le grandi dilatazioni dei centri urbani; si è avuta una notevole febbre commerciale rispetto ai terreni, con rapidi accrescimenti nei prezzi e casi notevoli di speculazione edificatoria. I servizi pubblici sono bene organizzati e, malgrado la crisi, la vita cittadina pulsa attiva.
Qualche altro nucleo nitidamente ebraico si è formato negli ultimi anni per residenza o per affari, od è in preparazione; si può rammentare il bel sobborgo di Talpiot nel pressi di Gerusalemme, Chiriat Sherauel, quartiere alberghiero a Tiberiade, Bath Galim sobborgo grazioso, tipo città giardino, alle porte di Caifa. In mezzo alla pingue valle di Izreèl è predisposta la costruzione di un centro di affari, Afuleh, connesso con la grande attività rurale della zona; esso è però ancora allo stato primordiale, piccolo gruppo di baracche e caseggiati intorno alla stazione ferroviaria.
Movimento intellettuale
Gli Ebrei in ogni paese sono inclini non solo all’attività economica, ma anche all’opera alta del pensiero, ed hanno sempre avuto parte mirabile nella attività scientifica. Fra gli attuali immigrati in Palestina dominano decisamente gli intellettuali che hanno recato seco il fervore della vita di pensiero.
L’Università ebraica di Gerusalemme — fondata da appena un triennio — è già divenuta mirabile nucleo ed organo propulsore di indagini dottrinali. Non è un’università nel senso inteso fra noi, dove si svolga un definito curriculum di lezioni, secondo regolari schemi, per preparare gli studenti all’ulteriore opera scientifica e didattica e all’attività professionale; è, invece, per ora prevalentemente un organo di ricerche. Vi esistono cattedre, si tengono corsi e serie di letture, ma non hanno luogo esami né si rilasciano diplomi. L’Università di Gerusalemme è cosi un aggregato di studiosi, raccolto intorno ad alcuni scienziati eminenti; i risultati delle indagini scientifiche sono consegnati in diverse serie di pubblicazioni, tutte redatte in ebraico. I campi di attività intellettuale sono ancora limitati; si hanno Istituti di microbiologia, di igiene, chimica, storia naturale palestinese (strettamente connesso con la Stazione agricolo-sperimentale di Tel Aviv), l’istituto di matematica, la Scuola di studi orientali e l’Istituto di studi ebraici; quest’ultimo ha particolare importanza come «centro per il promuovimento della conoscenza scientifica del giudaismo», intesa questa conoscenza in senso assai lato.
L’Università è situata in un bel edificio appositamente costruito sul Monte Scopus, il monte su cui si insediò Tito per le operazioni dell’assedio; esso domina dall’alto Gerusalemme, ed il panorama si allarga ampio e suggestivo sino al Mar Morto. Presso l’Università sarà più tardi la degna sede della Biblioteca Nazionale universitaria; ora essa è malamente accampata in cinque angusti edifici, dove si accalcano numerosi lettori. Alla formazione di questa biblioteca hanno concorso con entusiasmo e cortesia istituti ed uomini di scienza di ogni paese, di ogni stirpe e di ogni fede, con una unanimità di simpatia che è indice di fiducia nell’avvenire del movimento intellettuale palestinese. La biblioteca, nel maggio 1927, già contava 180.000 volumi, di cui 150.000 catalogati. La catalogazione è fatta secondo il metodo Dewey, modificato. Questa cospicua massa libraria abbraccia ogni ramo dello scibile, ma in essa naturalmente la materia giudaica ha un certa preponderanza: si cerca opportunamente di raccogliere a Gerusalemme la massima parte possibile delle pubblicazioni e documenti in cui si è tradotta la storia della gente ebraica e la letteratura israelitica.
Il bilancio della biblioteca per l’anno 1926-27 sale appena a lire egiziane 4.014; sono poco più di 400.000 lire italiane, cifra minima di fronte al vasto compito. Ma il patrimonio librario della biblioteca è essenzialmente integrato da larghi doni. Fra i recenti acquisti emerge quello dell’intera collezione di materiale arabico lasciato dal celebre professor Ignazio Goldziher, della Università di Vienna, raccolta di raro pregio per gli studi islamitici, che potè essere acquistata mediante i mezzi forniti dall’«Associazione delle donne sioniste della Rhodesia». È evidente la convenienza per la scienza degli altri paesi di essere bene rappresentata e conosciuta nel nuovo centro di luce intellettuale che è sorto in Sionne. Il bibliotecario e il vice-bibliotecario — entrambi buoni conoscitori della lingua italiana, e uno di essi allievo di Pio Rajna — mi facevano notare come il materiale italiano non sia molto cospicuo nella biblioteca; ciò malgrado, il cortese invito fatto dal nostro Ministero dell’Istruzione ad istituti e studiosi al momento in cui l’Università di Gerusalemme venne fondata.
La biblioteca pubblica, il Kirjath Sepher, rassegna bibliografica trimestrale, la quale contiene un ordinata elencazione critica di tutte le pubblicazioni fatte in ogni paese intorno agli ebrei ed all’ebraismo, e contiene anche la completa bibliografia di tutto quanto si pubblica in Palestina, in qualsiasi lingua e materia; la massa delle pubblicazioni palestinesi risulta veramente cospicua di fronte alla piccola entità topografica e demografica del territorio.
La varietà e gravità dei problemi economici che segnalano nel momento presente la vita palestinese, dovevano provocare una particolare attività scientifica; si è così costituita la «Palestine Economic Society», che pubblica un bollettino veramente ragguardevole, in cui si succedono studi notevoli sull’economia agraria, sul movimento commerciale, sul movimento operaio, bollettino che meriterebbe la attenzione degli studiosi italiani.
Palestina e Italia
L’Italia ha avuto ed ha tuttora intensi rapporti morali con la Palestina cristiana, rapporti intrecciati e mantenuti specialmente ad opera del Clero; è ben noto quale alta azione svolgano soprattutto i Francescani ed ultimamente anche i Missionari dell’Opera Cardinal Ferrari, non soltanto nei rispetti religiosi, ma anche per l’educazione civile e la diffusione della coltura e della lingua italiana. È una azione che, mossa da intenti spirituali, giova all’espansione dell’italianità. L’Italia ha ripetutamente manifestato la sua simpatia morale e politica per la formazione della Palestina ebraica. Vi è la possibilità e la speranza che i rapporti si intreccino sempre più saldi ed estesi. Con molta opportunità il nostro Governo ha provveduto ad istituire una cattedra di lingua italiana nel Ginnasio-liceo di Tel Aviv e vi ha preposto un professore delle nostre scuole secondarie. Altra cattedra consimile è in preparazione per il Ginnasio-liceo di Gerusalemme, grazie alla iniziativa del Console generale, on. Pedrazzi.
La legge Gentile di riforma all’ordinamento universitario, con principio veramente geniale, dispose nel 1923, l’esenzione delle tasse scolastiche per gli studenti stranieri. Lungo il decorso quadriennio, qualche centinaio di studenti palestinesi affluirono ai nostri Istituti superiori; il movimento fu pure facilitato transitoriamente dal minor costo della vita, derivato dalla svalutazione della lira, ed altresì dalla generosa concessione delle nostre Compagnie di navigazione (Lloyd Triestino e Sitmar) di un ribasso del 75 per cento sul prezzo del passaggio marittimo. Gli studenti palestinesi hanno trovato in Italia benevola accoglienza; ora essi, ritornati in patria, amano il nostro Paese e sono in qualche maniera, rappresentanti e strumenti delta nostra coltura; e me ne diede prova taluno di essi che durante il mio breve viaggio in Palestina, mi fu guida e illustratore prezioso. Però questa migrazione di giovani intelligenze fra la Terra Santa e l’Italia minaccia di diminuire o cessare, non solo perché è cessato lo stimolo risultante dalla anteriore situazione monetaria, ma ancor più perché la franchigia delle tasse scolastiche è stata ridotta alla metà soltanto.
Il movimento commerciale tra l’Italia e la Palestina non è cospicuo. Un rapporto sul mercato e sull’andamento del commercio estero della Palestina, pubblicato dal nostro Istituto Nazionale per l’esportazione (Bollettino del 26 novembre 1927), segna la parte tenuta dall’Italia nelle Importazioni totali al 5% nel 1S85 e al 4,7% nel 1926. Quest’ultima aliquota è forse alquanto in feriore alla realtà per un mutamento intervenuto nella formazione delle statistiche commerciali palestinesi, per cui i dati sono classificati per paesi di provenienza anziché per paesi di origine. Il rapporto citato designa le circostanze che rendono così ristretta la importazione italiana in Palestina. Fra gli articoli più importanti nel 1926 hanno figurato i seguenti:
– Paste alimentari, riso, olio di oliva, burro fresco L.E. 12.575
– Olio di oliva non raffinato, sostanze tanniche L. E. 37.548
– Tessuti di cotone, di lana, misti di lana e cotone, di seta artificiale e naturale, coperte e scialli di seta, cappelli e berretti L.E- 60.630
– Tubi di piombo, macchine agricole e altri prodotti non meglio classificati L.E. 1.350
Non sono grandi cifre. Nei primi anni dopo la guerra il traffico era proporzionalmente più rilevante; delle possibilità notevoli si presentano forse per le automobili, poiché il movimento automobilistico ha primaria importanza in un paese che ha comunicazioni ferroviarie ancora limitate ed abbastanza vasta e in parte buona la rete stradale. Qualche possibilità si potrebbe avere anche per le acque minerali di cui è esteso il consumo e che provengono ora principalmente dalla Francia e dal Belgio. Una maggiore estensione potrebbe forse ancora trovare il collocamento di alcuni indumenti, fra cui le maglierie, le calze, le cravatte, ecc. ed alcuni tipi di dolciumi. Il movimento commerciale troverà certo maggior sviluppo quando sarà superata l’attuale fase di crisi e sarà migliorato l’accesso marittimo. È però necessario che le imprese industriali e commerciali italiane sappiano migliorare la loro organizzazione locale in Palestina se vogliono raggiungere la conquista del mercato.
RICCARDO BACHI
Ira israelita in Polonia contro «Il Dio della vendetta»
La Stampa, 1ª ed.
Anno LXII, n. 64
Anno LXII, n. 64
giovedì, p. 2
9 febbraio 1928
Varsavia, 8, notte.
La rappresentazione del dramma di Salom Ash, Il Dio della vendetta – noto anche al pubblico italiano nella interpretazione di Alfredo De Sanctis – ha suscitato violenta agitazione nella popolazione ebraica di Kozienice. In espiazione del peccato commesso assistendo alla rappresentazione di questa opera, che costituisce «un insulto alla religione israelita», 13 rabbini, riuniti solennemente in quella piccola città polacca, hanno ordinato ai loro compatrioti un digiuno di tre giorni e hanno lanciato delle maledizioni contro gli attori. Uno degli artisti, che si era recato alla sinagoga per chiedere perdono al rabbino, fu sul punto di essere lapidato dai fanatici del ghetto, e dovette la sua salvezza all’arrivo della polizia.
Il periodo aureo della pensione Pancaldi, al settimo piano di San Carlo al Corso, fu segnato precisamente dalla presenza dell’agitatore nazionalista Gionata Blumestein, nativo di Giaffa ed acerrimo nemico dei cristiani, studioso di cose ebraiche e sognatore instancabile di un florido regno di Palestina, ove lui e i suoi correligionari di tutto il mondo sarebbero andati a trascorrere la loro vita tra immense agiatezze e campi ubertosi.
Blumestein, rivoluzionario dal fisico insignificante e dalla voce corpulenta, raggiungeva, a mezzogiorno preciso, casa Pancaldi, preceduto da una fame spaventevole; agile come uno scoiattolo si fumava le scale e, ossequiando a destra e a manca, calava il naso sulla ampia minestra calda. Da questo momento egli esigeva l’attenzione della lunga tavola con lo sue interminabili apologie del sionismo, e lo ascoltavano, nervosi, un disperato amatore di cavalli, in realtà impiegato alla Banca Italiana di Sconto, alcuni pittori spagnoli, gran mangiatori di pane, e una dozzina di borghesi avari e milionari, incapaci di spendere più di uno scudo a pasto.
Gente usuraia, ecco, frequentava la pensione Pancaldi, che un tempo risonò delle orgie e dei dollari di gai artisti stranieri; chi si portava sotto la giacca le arance comprate al mercato lontano, chi il triste vino nelle minuscole bottiglie da farmaci. Eppure la casa sembrava una galleria: quadri di valore e statue antiche e moderne ingombravano l’ingresso, le pareti e i corridoi. Tuttavia si pagavano pranzo e cena meno che in tutte le osterie di Roma. Perciò il cospiratore di Giaffa si impose al settimo piano di San Carlo al Corso. Guadagnava poco ma alla fine del mese saldava in anticipo la vedova Pancaldi, e rimaneva. Le polemiche religiose lo appassionavano grandemente tanto che i tafferugli si consideravano quotidiani tra lui e il cavallerizzo o gli spagnoli; Blumestein voleva l’indipendenza della Palestina con Giaffa capitale e per conseguenza frustava a sangue i cristiani. Spaventati i clienti più timidi non tornavano più, lasciando il loro posto ai fedeli seguaci del separatista. Un fianco della tavola ospitava ormai gli ebrei scalmanati, in fila serrata; il capo contava di conquistarne anche l’altra fila a forza di invettive contro i borghesi di fronte, su cui si scagliava molto volentieri, sapendoli agiatissimi, ignoranti e vili.
Era arrivata, la mattina, da Mosca la coppia Klimof, ricevuta alla stazione centrale da Gionata Blumestein. Davide ed Aurora Klimof avevano abbandonata la Russia rivoluzionaria perché ebrei dissidenti e disciplinati seguaci del redentore di Palestina. Rifugiatisi a Roma, occuparono immediatamente i due posti liberi in casa Pancaldi, tra un loquace e battagliero pittore brasiliano e il cavallerizzo.
Klimof, dalla voluminosa borsa di cuoio rosso, l’impermeabile trasparente, gli occhi larghi di vetro opaco e la faccia gonfia asimmetrica e incoronata di capelli e barba rossiccia, aveva preferito l’esilio perché convinto, dalla moglie, delle sicure promesse di Blumestein, ma non era vero che a Mosca viveva da cane e d’altro canto nessuno sapeva che lui professava idee di nazionalista monarchico. Anche nella pensione Pancaldi taceva o mangiava, approvando con leggeri colpi di testa le terribili profezie del maestro. Il suo chiaro compito non andava di là dal mangiare taciturno e abbondante.
Aurora Klimof non era più eloquente del marito e però il suo silenzio emozionava più di un romanzo. Seduta di fronte al redentore si curava poco della qualità e della quantità dei cibi e poiché aveva la bocca piccola e le mani di bimba si nutriva di briciole, ma i suoi grandi occhi neri, tristi e incerti divoravano Blumestein e saettavano l’intera tavola, eppure non si vedeva tra tanti colossi dato il suo corpicino di bambola da villaggio. Soltanto i grandi occhi incastonati tra gli ampi zigomi denunciavano la profonda intelligenza di Aurora che, del resto, era una piccola donna semplice e per nulla degna di attenzione, dai capelli unti e divisi in mezzo alla leggera peluria del volto olivastro su cui ardeva lo sconfinato amore per Giaffa, terra nativa, tutta per gli israeliti.
Le polemiche si moltiplicavano, e le conclusioni le esigevano dalla consorte di Klimof, unica donna della tavola; come ruscelletti veloci i discorsi andavano a finire contro la tesa attenzione di Aurora. I complimenti e le ingiurie attraversavano anzitutto il suo corpo, il fumo delle sigarette e l’odore del vino la pigliavano di bersaglio; tuttavia la delicata figlia di Giaffa rimaneva inchiodata alla scafo mentre numerose perline di sudore le incoronavano l’ampia fronte e le labbra sottili. Sorrisi lontani si illuminavano negli occhi dopo lunghe tappe di tristezza se Gionata Blumestein, alla fine d’una parabola dal significato spaventevole, batteva trionfalmente il grosso pugno sulla tavola. Allora la Klimof lasciava sfuggirsi una approvazione, non altro che un breve cenno della testolina d’un nero lucente. Ritornava di colpo a soffrire appena il crudele cavallerizzo o gli spagnoli contrattaccavano le teorie del profeta, solidificando le idee con lazzi, risate e colpi di gomito sul legno. Immobile e senza fiato stava la piccola ebrea, linda ed umile tra tanta cenere di macedonie sparse nelle tazze del caffè, si levava soltanto appena Blumestein dal volto di brace, spargendo sulla tovaglia gli avanzi del sigaro, andava via maledicendo nel suo idioma l’avversaria genìa.
Fuori, la coppia Klimof lo accompagnava, sempre silenziosa, a passeggio, oltre il Palazzo di Giustizia, e lei lo ascoltava col profondo orecchio dell’anima.
Secondo le elementari teorie del marito, Aurora era una timida creatura, per la cui bocca non esistono lo parole e i suoni. Nella pensione Pancaldi nessuno ancora conosceva la sua voce, eccetto Blumestein che trascorreva al Caffè Greco intere ore con Davide Klimof e la signora nel giuoco degli scacchi. Certo l’uomo dall’impermeabile trasparente avrebbe persino concesso alla ingenua moglie, senza alcuna ombra di gelosia, anzi orgoglioso, di passeggiare sola con l’agitatore di Giaffa, né il più lontano sospetto di tradimento avrebbe fatto ricadere sull’uno o sull’altra. Aurora, però, avrebbe rifiutato decisamente di rimanere testa a testa col grande e terribile Blumestein, nelle cui mani larghe e pelose stava riposto il destino della Palestina. Troppo, questa era la verità, la appassionava il compatriota eloquente. Dentro di sé, nella fragile e forte anima sentiva di dominarlo e di ispirarlo, ma nella realtà avveniva il contrario. Soltanto con la fantasia si portava vicino a lui e gli confidava il suo amore, ma per le strade, al caffè, nella pensione rimaneva a bocca cucita.
La politica aveva in Blumestein soffocato tanti bei sentimenti e al punto tale che il sognatore della libera Palestina vedeva in Aurora non la sua innamorata, ma il simbolo della lontana terra nativa.
— Gionata, gli avrebbe voluto dire la triste commensale, tu porti Giaffa redenta sul palmo delle mani e con la tua parola pura, santa e robusta la togli a poco a poco dagli artigli stranieri, se il mio cuore ha forza, questa, ti dico, la passo a te perché tu possa combattere con maggiori mezzi, però al di sopra del mondo e degli eventi io ti amo e vorrei vivere ai tuoi piedi infaticabili per respirare intorno a te la grandezza della tua anima cristallina. Sono povera e debole, ricchezza e benessere a te ho sacrificato, ti seguo per il mondo e soffro!
Veleni infatti e non cibi assaporava alla pensione Pancaldi la sensibile Aurora, e per amore di Blumestein dimagriva in segreto.
Guai, purtroppo, quando i profeti perdono la serenità che li rende immortali e il loro sangue si riscalda fino a bollire negli occhi e nelle tempie; allora diventano, detti apostoli, dei volgari e sudici energumeni, piangono, bestemmiano gli antenati e le anime innocenti, si mordono la lingua e la sputano, si rotolano per terra, vomitando e sbottonandosi perfino le scarpe.
Una sera avvenne identico fatto con Gionata Blumestein. Il cavallerizzo gli spruzzò il vino in faccia, alla presenza di Aurora Klimof. Come un lampo, il profeta si scagliò sull’avversano, scavalcando la tavola, e i graffi e i pugni, nel corpo a corpo, non si contarono più. Nessuno levò un dito per salvare Blumestein dalla rivincita dell’amatore di cavalli, magro ma muscoloso e svelto, che, a sua volta, lo mise con le spalle a terra sempre pestandogli la faccia a colpi di pane duro.
Pietrificati rimasero i commensali, alcuni con la forchetta a tre dita dalla bocca, altri col coltello in aria, gli spagnoli con la crosta tra i denti. Dopo il primo pugno sferrato, l’agitatore di Giaffa si lasciò massacrare dal cavallerizzo, limitandosi a coprire l’avversario di trivialissime maledizioni. Il più forte, zitto e cauto menava senza misericordia, sfogando la bile accumulata in tanti mesi, e picchiava con eleganza e metodo non accennando alla minima stanchezza; da pugilista che vuole vincere ai punti, gli risparmiava la dura lezione dello svenimento immediato.
Inginocchiata, Aurora, invano supplicava.
— Assez, assez, monsieur!
Ed era la prima volta che nella pensione Pancaldi faceva udire la sua dolcissima voce.
Blumestein si levò senza fatica; non il più piccolo sfregio alla faccia, né la più minuscola goccia di sangue alle mani si trovò, staccandosi dalla terra sporca, ma si sentiva le ossa spaccate e la carne pesta. Ormai, muto e avvilitissimo, si lasciò spazzolare dalle morbide e tremanti mani di Aurora. In fondo alle scale una dozzina di fanciulloni ebrei cospiratori lo acclamò al suo apparire, e Gionata scoppiò in pianto rumoroso sulle spalle dell’amica.
— A morte il cavallerizzo!
Minacciarono i ragazzi e fecero per slanciarsi di colpo fino al settimo piano. Aurora, però, li trattenne con la sua dolcezza infinita e spiegò che non con il sangue ma con la amorevole persuasione si riscatta la libertà del lontano paese. Ciò detto, come visione, scomparve, umilmente, tra le pieghe dell’impermeabile di Klimof.
Soltanto Gionata Blumestein ritornò da Pancaldi quei tre giorni che rimanevano alla fine del mese.
Aurora di Giaffa
La Stampa, 1ª ed.
Anno LXII, n. 53
Anno LXII, n. 53
venerdì, p. 3
2 marzo 1928
Blumestein, rivoluzionario dal fisico insignificante e dalla voce corpulenta, raggiungeva, a mezzogiorno preciso, casa Pancaldi, preceduto da una fame spaventevole; agile come uno scoiattolo si fumava le scale e, ossequiando a destra e a manca, calava il naso sulla ampia minestra calda. Da questo momento egli esigeva l’attenzione della lunga tavola con lo sue interminabili apologie del sionismo, e lo ascoltavano, nervosi, un disperato amatore di cavalli, in realtà impiegato alla Banca Italiana di Sconto, alcuni pittori spagnoli, gran mangiatori di pane, e una dozzina di borghesi avari e milionari, incapaci di spendere più di uno scudo a pasto.
Gente usuraia, ecco, frequentava la pensione Pancaldi, che un tempo risonò delle orgie e dei dollari di gai artisti stranieri; chi si portava sotto la giacca le arance comprate al mercato lontano, chi il triste vino nelle minuscole bottiglie da farmaci. Eppure la casa sembrava una galleria: quadri di valore e statue antiche e moderne ingombravano l’ingresso, le pareti e i corridoi. Tuttavia si pagavano pranzo e cena meno che in tutte le osterie di Roma. Perciò il cospiratore di Giaffa si impose al settimo piano di San Carlo al Corso. Guadagnava poco ma alla fine del mese saldava in anticipo la vedova Pancaldi, e rimaneva. Le polemiche religiose lo appassionavano grandemente tanto che i tafferugli si consideravano quotidiani tra lui e il cavallerizzo o gli spagnoli; Blumestein voleva l’indipendenza della Palestina con Giaffa capitale e per conseguenza frustava a sangue i cristiani. Spaventati i clienti più timidi non tornavano più, lasciando il loro posto ai fedeli seguaci del separatista. Un fianco della tavola ospitava ormai gli ebrei scalmanati, in fila serrata; il capo contava di conquistarne anche l’altra fila a forza di invettive contro i borghesi di fronte, su cui si scagliava molto volentieri, sapendoli agiatissimi, ignoranti e vili.
Era arrivata, la mattina, da Mosca la coppia Klimof, ricevuta alla stazione centrale da Gionata Blumestein. Davide ed Aurora Klimof avevano abbandonata la Russia rivoluzionaria perché ebrei dissidenti e disciplinati seguaci del redentore di Palestina. Rifugiatisi a Roma, occuparono immediatamente i due posti liberi in casa Pancaldi, tra un loquace e battagliero pittore brasiliano e il cavallerizzo.
Klimof, dalla voluminosa borsa di cuoio rosso, l’impermeabile trasparente, gli occhi larghi di vetro opaco e la faccia gonfia asimmetrica e incoronata di capelli e barba rossiccia, aveva preferito l’esilio perché convinto, dalla moglie, delle sicure promesse di Blumestein, ma non era vero che a Mosca viveva da cane e d’altro canto nessuno sapeva che lui professava idee di nazionalista monarchico. Anche nella pensione Pancaldi taceva o mangiava, approvando con leggeri colpi di testa le terribili profezie del maestro. Il suo chiaro compito non andava di là dal mangiare taciturno e abbondante.
Aurora Klimof non era più eloquente del marito e però il suo silenzio emozionava più di un romanzo. Seduta di fronte al redentore si curava poco della qualità e della quantità dei cibi e poiché aveva la bocca piccola e le mani di bimba si nutriva di briciole, ma i suoi grandi occhi neri, tristi e incerti divoravano Blumestein e saettavano l’intera tavola, eppure non si vedeva tra tanti colossi dato il suo corpicino di bambola da villaggio. Soltanto i grandi occhi incastonati tra gli ampi zigomi denunciavano la profonda intelligenza di Aurora che, del resto, era una piccola donna semplice e per nulla degna di attenzione, dai capelli unti e divisi in mezzo alla leggera peluria del volto olivastro su cui ardeva lo sconfinato amore per Giaffa, terra nativa, tutta per gli israeliti.
Le polemiche si moltiplicavano, e le conclusioni le esigevano dalla consorte di Klimof, unica donna della tavola; come ruscelletti veloci i discorsi andavano a finire contro la tesa attenzione di Aurora. I complimenti e le ingiurie attraversavano anzitutto il suo corpo, il fumo delle sigarette e l’odore del vino la pigliavano di bersaglio; tuttavia la delicata figlia di Giaffa rimaneva inchiodata alla scafo mentre numerose perline di sudore le incoronavano l’ampia fronte e le labbra sottili. Sorrisi lontani si illuminavano negli occhi dopo lunghe tappe di tristezza se Gionata Blumestein, alla fine d’una parabola dal significato spaventevole, batteva trionfalmente il grosso pugno sulla tavola. Allora la Klimof lasciava sfuggirsi una approvazione, non altro che un breve cenno della testolina d’un nero lucente. Ritornava di colpo a soffrire appena il crudele cavallerizzo o gli spagnoli contrattaccavano le teorie del profeta, solidificando le idee con lazzi, risate e colpi di gomito sul legno. Immobile e senza fiato stava la piccola ebrea, linda ed umile tra tanta cenere di macedonie sparse nelle tazze del caffè, si levava soltanto appena Blumestein dal volto di brace, spargendo sulla tovaglia gli avanzi del sigaro, andava via maledicendo nel suo idioma l’avversaria genìa.
Fuori, la coppia Klimof lo accompagnava, sempre silenziosa, a passeggio, oltre il Palazzo di Giustizia, e lei lo ascoltava col profondo orecchio dell’anima.
Secondo le elementari teorie del marito, Aurora era una timida creatura, per la cui bocca non esistono lo parole e i suoni. Nella pensione Pancaldi nessuno ancora conosceva la sua voce, eccetto Blumestein che trascorreva al Caffè Greco intere ore con Davide Klimof e la signora nel giuoco degli scacchi. Certo l’uomo dall’impermeabile trasparente avrebbe persino concesso alla ingenua moglie, senza alcuna ombra di gelosia, anzi orgoglioso, di passeggiare sola con l’agitatore di Giaffa, né il più lontano sospetto di tradimento avrebbe fatto ricadere sull’uno o sull’altra. Aurora, però, avrebbe rifiutato decisamente di rimanere testa a testa col grande e terribile Blumestein, nelle cui mani larghe e pelose stava riposto il destino della Palestina. Troppo, questa era la verità, la appassionava il compatriota eloquente. Dentro di sé, nella fragile e forte anima sentiva di dominarlo e di ispirarlo, ma nella realtà avveniva il contrario. Soltanto con la fantasia si portava vicino a lui e gli confidava il suo amore, ma per le strade, al caffè, nella pensione rimaneva a bocca cucita.
La politica aveva in Blumestein soffocato tanti bei sentimenti e al punto tale che il sognatore della libera Palestina vedeva in Aurora non la sua innamorata, ma il simbolo della lontana terra nativa.
— Gionata, gli avrebbe voluto dire la triste commensale, tu porti Giaffa redenta sul palmo delle mani e con la tua parola pura, santa e robusta la togli a poco a poco dagli artigli stranieri, se il mio cuore ha forza, questa, ti dico, la passo a te perché tu possa combattere con maggiori mezzi, però al di sopra del mondo e degli eventi io ti amo e vorrei vivere ai tuoi piedi infaticabili per respirare intorno a te la grandezza della tua anima cristallina. Sono povera e debole, ricchezza e benessere a te ho sacrificato, ti seguo per il mondo e soffro!
Veleni infatti e non cibi assaporava alla pensione Pancaldi la sensibile Aurora, e per amore di Blumestein dimagriva in segreto.
Guai, purtroppo, quando i profeti perdono la serenità che li rende immortali e il loro sangue si riscalda fino a bollire negli occhi e nelle tempie; allora diventano, detti apostoli, dei volgari e sudici energumeni, piangono, bestemmiano gli antenati e le anime innocenti, si mordono la lingua e la sputano, si rotolano per terra, vomitando e sbottonandosi perfino le scarpe.
Una sera avvenne identico fatto con Gionata Blumestein. Il cavallerizzo gli spruzzò il vino in faccia, alla presenza di Aurora Klimof. Come un lampo, il profeta si scagliò sull’avversano, scavalcando la tavola, e i graffi e i pugni, nel corpo a corpo, non si contarono più. Nessuno levò un dito per salvare Blumestein dalla rivincita dell’amatore di cavalli, magro ma muscoloso e svelto, che, a sua volta, lo mise con le spalle a terra sempre pestandogli la faccia a colpi di pane duro.
Pietrificati rimasero i commensali, alcuni con la forchetta a tre dita dalla bocca, altri col coltello in aria, gli spagnoli con la crosta tra i denti. Dopo il primo pugno sferrato, l’agitatore di Giaffa si lasciò massacrare dal cavallerizzo, limitandosi a coprire l’avversario di trivialissime maledizioni. Il più forte, zitto e cauto menava senza misericordia, sfogando la bile accumulata in tanti mesi, e picchiava con eleganza e metodo non accennando alla minima stanchezza; da pugilista che vuole vincere ai punti, gli risparmiava la dura lezione dello svenimento immediato.
Inginocchiata, Aurora, invano supplicava.
— Assez, assez, monsieur!
Ed era la prima volta che nella pensione Pancaldi faceva udire la sua dolcissima voce.
Blumestein si levò senza fatica; non il più piccolo sfregio alla faccia, né la più minuscola goccia di sangue alle mani si trovò, staccandosi dalla terra sporca, ma si sentiva le ossa spaccate e la carne pesta. Ormai, muto e avvilitissimo, si lasciò spazzolare dalle morbide e tremanti mani di Aurora. In fondo alle scale una dozzina di fanciulloni ebrei cospiratori lo acclamò al suo apparire, e Gionata scoppiò in pianto rumoroso sulle spalle dell’amica.
— A morte il cavallerizzo!
Minacciarono i ragazzi e fecero per slanciarsi di colpo fino al settimo piano. Aurora, però, li trattenne con la sua dolcezza infinita e spiegò che non con il sangue ma con la amorevole persuasione si riscatta la libertà del lontano paese. Ciò detto, come visione, scomparve, umilmente, tra le pieghe dell’impermeabile di Klimof.
Soltanto Gionata Blumestein ritornò da Pancaldi quei tre giorni che rimanevano alla fine del mese.
ANTONIO AMANTE
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