(Nostra corrispondenza). PARIGI 27. La stampa francese – interprete dell’opinione prevalente nei nostri più autorevoli Circoli politici – si preoccupa da qualche tempo e denuncia un “péril juif” che non manca di documentare, non solo nella sua evidente esistenza per i destini d’Oriente e della Palestina, ma anche per la politica europea.
Il pericolo appare qui, così preciso e così vasto che si parla di “politique judaïque” cui l’Inghilterra darebbe forma e sostanza sotto la pressione di influentissimi elementi ebraici. Non siamo in condizioni ancora di commentare esprimendo, comunque, un pensiero, un giudizio esatto; ma sarebbe trascuratezza imperdonabile non segnalare una corrente di idee, la quale non appare affatto nè infondata nè arbitraria.
La «Revue Hebdomarie», per esempio, cita dei fatti, fa della storia, raccoglie voci incontrastate di cronaca controllabile da chiunque segua da vicino il fenomeno indicato e non si disenteressi di questo complesso periodo di vita internazionale.
«Con l’entrata di Disraeli al Ministero – scrive infatti Roger Lambelin – si può dire senza esagerazione che fu l’“idée juive” che arrivò al potere». Il regno di Edoardo VII ne affretterà il trionfo divenuto incontestabile dopo qualche anno. Noi vediamo realizzarsi l’assioma non ha guari pronunciato dal professore israelita Lombart: «les guerres sont les missions des Juifs et les revolutions aussi».
«Conservatori in Inghilterra – continua testualmente la
Revue, – bolscevichi in Russia, repubblicani di tinte diverse in Francia, socialisti in Germania e in Austria, gli ebrei hanno meravigliosamente profittato delle circostanze, delle correnti di opinione, del mutar dei venti.
«Un ufficiale francese desiderava di servire presso i nostri alleati come interprete o come ufficiale di collegamento; si assicurava ch’egli parlasse un po’ l’inglese, ma egli era certo di essere ammesso se la sua domanda fosse stata appoggiata da un Rothschild o da un ebreo “de marque”; M. Joseph Reinach ebbe passo libero al G. Q. G. Britannico».
E dopo questa, veramente non troppo «éclatante éprouve» della potenza ebraica presso i nostri alleati, la
Revue cita altri casi e sintomi. Sir John Douglas Haig aveva, per esempio, come segretario particolare sir Philip Sassoon, nipote del barone Gustavo de Rothschild, intimo del Governo, quanto i Rotschilds stessi e sir Rufus Isaacs, divenuto poi Lord Reading.
Alla Camera dei Lords, gli ebrei sono tuttavia una piccola falange e siccome essi cambian di nome nel divenire Pari del Regno, così è difficile scoprirli. Alla Camera dei Comuni essi sono una dozzina e due sono membri del Governo: sir Edwin Mantagu, Segretario di Stato per l’India e sir Alfred Mond, Ministro dei lavori pubblici. Il Governatore del Queensland si chiama sir Mathew Nathan;
sir Herbert Samuel è alto Commissario di Palestina e Lord Reading è vice-re delle Indie.
Dal 1919, ventitrè ebrei sono «baronetti» e quindi sono «Knights». Il più diffuso dei grandi quotidiani di Londra, il
Daily Telegraph appartiene al visconte Burnaham, che si chiama Levi Lawson come nome di origine il cui padre venne di Germania sulle rive del Tamigi. Sir Alfred Mond è arcipotente alla
Westminster Gazette; il Daily Express ha per direttore il signor Blemenfeld. La politica estera del
Daily News è affidata a Teodoro Rothstein; quella del
Graphic e del
Daily Graphic a Luciano Wolf. Nella stampa di Lord Northeliff, possente trust riunente il
Times, il
Daily Mail, il
Sunday Pictorial, l’
Evening News, ed una cinquantina di pubblicazioni diverse, si conta un considerevole numero di collaboratori ebrei.
Gli ebrei del Regno Unito dispongono pure di una stampa anglo-ebraica che non comprende meno di sedici giornali e riviste. Sei sono quotidiani: sette sono redatti in inglese, una in ebraico, e le altre in «yiddisch», un dialetto ebreo-tedesco, parlato dai semiti di Russia e dell’Europa centrale. Così pure si segnala l’attività «tanto più efficace quanto più discreta» degli ebrei nelle logge massoniche, alle quali la Allenza Universale, incita i suoi membri ad affigliarsi.
Ora, taluno che ha seguito l’attività sionistica nei grandi Stati moderni sotto lo influsso del razionalismo, sotto la pressione dei grandi interessi industriali e commerciali, e del movimento antireligioso ed anticattolico, non scorgerà forse in questa fioritura semitica inglese un sintomo straordinario, caratteristico, e sintomatico in modo eccessivo. La Germania, l’Austria, l’Italia, la Francia stessa, potrebbero mettere insieme delle statistiche eloquenti, nella politica e nella stampa di affermazioni ebraiche, non inferiori a queste d’Inghilterra.
Tuttavia, qui, si insiste per scorgervi un vero e proprio orientamento politico che avrebbe nei dati sopradescritti soltanto dei punti di partenza. «Uomini di tutte le parti – continua la nostra citazione – si accordano per assecondare la potenza ebraica: radicali come David Lloyd George; liberali come Asquith, socialisti come Smillie,
conservatori come
Arthur James Balfour e
Lord Robert Cecil».
«Et ainsi – commenta la
Libre parole, s’expliquent bien des choses!» E a spiegarle porta il suo contributo Georges Retault nell’
Eclair, il quale non esita di sintetizzare la sua critica alla politica del Governo inglese, in queste parole: «est essentiellement une politique judaïque». Per venire a tale conclusione, Retault, sale ad una visione complessa della politica inglese del dopoguerra, e ad una disamina ancor più diligente delle influenze dirette od indirette che agiscono sul Governo di Londra: «È la finanza ebrea internazionale che ha posto il suo quartier generale alla Borsa Londinese – egli osserva – e che ispira il pensiero governativo. Sì da chiamarla responsabile della politica inglese in Irlanda, in Polonia, a Mosca, in Germania, in Palestina».
E i giornali sottolineano queste critiche gravissime notando che l’autore e tutt’altro che un antisemita. Mauro Privat, si fa eco di di queste ormai prevalenti opinioni, nel
Matin; la sua tesi ha del catastrofico: «finis Britanniae» addirittura, tanto poco, secondo lui, avrebbe ormai di nazionale di nazionale la politica inglese, per essersi trasformata in politica ebrea. Eppure Albert Monniot gli rimprovera ancora di non aver visto come i sintomi anglo-ebraici, non sono che episodi dell’esecuzione di un piano di insieme». – Il n’a lu ni Drumont ni les Protocoles des Sages de Sion» – ribatte Monniot – «e se li ha letti, li ha scordati».
Ed ecco come tornano in campo i famosi
Protocoles des Sages, che avrebbero tracciate al popolo ebreo la via da seguirsi per divenire padrone del mondo, e la cui pubblicazione destò tutta la collera e le proteste d’Israele. Furono dichiarati un falso, furono ritenuti veri; rimasero fra le questioni insolute della storia letteraria. La
Documentation Catholique il 14 corr. pubblicò imparzialmente i documenti contradditorii, tanto ridivenne appassionante e di attualità, la questione per le discussioni di cui abbiam fatto cenno.
Ora
i Posliednia Novoki, il quotidiano russo diretto a Parigi da Milioukoff ha pubblicato un interessante studio su Nilus, l’autore presunto dei Protocolli, per la penna di du Chayla, cosacco del Don. Fra i suoi ricordi, questo du Chayla, afferma di aver conosciuto il Nilus nella biblioteca di un monastero ortodosso in Russia, e gli parve un uomo sincero, ingenuo, fanatico. Il Nilus, gli avrebbe detto come il manoscritto dei Protocolli appartenesse al giornale Ratchkosky, da cui l’ebbe a mezzo di una donna Natalia Athanassierna K. Il generale, venti anni fa, era capo della polizia segreta russa, e il manoscritto dei Protocolli, sarebbe stato scoperto da lui stesso, in archivi massonici.
Dunque non ne sarebbe Nilus l’autore; ma potrebbe ben esser Nilus l’autore di questa nuova versione, che riporta la questione della autenticità dei Protocolli in alto mare. Ma mentre la discussione storico-letteraria si raiccende e minaccia una volta ancora di procedere all’infinito, lasciando i contradittori ciascuno alla propria opinione, la
Croix, fa un’osservazione molto pratica: «Le predizioni dei Protocolli di quaranta anni fa non comincian forse a realizzarsi?» Autentici o no i Protocolli, è autentico il piano israelitico, cioè l’intenzione, lo scopo, la riscossa sionistica.
La cronaca nostra, potrebbe arrestarsi qui; ma non ci sembra giusto saltar a piè pari un avvenimento che, manifesta fra tante discussioni, donde non esula certo, la passione politica, la carità che domina sempre il pensiero e l’attività cattolica. Si è parlato di «réveil d’Israël» anche nella Cappella delle religiose di Notre Dame de Sion; ma di un risveglio che non è minaccia o pericolo, ma vuol essere pia e fiduciosa speranza.
Su questo tema, presente l’Arcivescovo di Parigi, parlò mercoledi l’eloquente P. Barret. Dopo aver detto che non si può negare la gravità del pericolo ebreo, delle ambizioni e deigli odi dei settarii potenti, l’oratore ha rilevata d’altra parte i segni precursori forse di un risveglio d’Israele di cui parlano le Scritture. I prodromi risalgono al patto di Turkenstein del 1797 ed alla conversione di due Ratisbonne: i segni più caratteristici, l’istituzione dei Preti di Sion, la petizione di 510 Vescovi al Concilio Vaticano, implorante la carità della Chiesa verso Israele, il sorgere dell’Arciconfraternita delle preghiere per gli Ebrei, che conta 50.000 membri; la posa della prima pietra della Chiesa delle Nazioni, fatta per mano del Card. Dubois, sul monte Oliveto; e finalmente il notevole movimento di conversione che conduce tanti ebrei in seno alla Chiesa. Di fronte al «piano ebraico» è così un «piano del Signore». Denunciare il pericolo ebraico, è senza dubbio necessario; ma non lo è meno assecondare l’opera delle conversioni che sta tanto a cuore
a Benedetto XV.
E i convenuti pregarono infine tutti insieme per la conversione degli ebrei. Dall’anima generosa della Francia non parte così soltanto un grido d’allarme; bensì anche un grido di carità cristiana.
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9 → § 8e
Sionismo e Palestina:
nuovi torbidi.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 144, p. 1
18 giugno 1921,
Sabato
(Nostra corrispondenza particolare). PARIGI, 15. – Si ha dal Cairo che la Stampa egiziana reca notizie di nuovi torbidi in Palestina, provocate dallo stato d’animo creatosi nella popolazione indigena cristiana e musulmana contro il sionismo, ed inasprotosi dopo gli ultimi avvenimenti che alla palese simpatia della suprema autorità civile per gli ebrei, aggiunsero i moti bolscevico-israeliti del maggio scorso.
È noto che la risposta data da
Sir Churchill quando passò di Gerusalemme, ai notabili cristiani e mussulmani costituì una grave delusione per i Comitati nazionali, i quali si dovean poco dopo veder negata l’udienza chiesta al Principe di Galles a cui intendevano presentare un loro memoriale circostanziato di fatti e di proteste. Il Governatore, avea semplicisticamente risposto, che il Principe era un ufficiale inglese e non un funzionario del governo.
A far passare dalla protesta all’azione, questo movimento antisionista, – su cui le autorità autorità competenti, s’illusero al punto da smentirlo a sè, al governo metropolitano, alle Potenze, – intervennero le violenze degli ebrei russi, non si sa ancora se nate da una congiura postuma alla loro immigrazione o per mandato bolscevico.
I torbidi, pertanto che si annunziano, assumerebbero l’aspetto, secondo i Comitati nazionali, di una difesa diretta di fronte all’inerzia se non al favoreggiamento avversario dell’autorità. Il centro ne’ è Giaffa, ove si è organizzato addirittura un boicottaggio contro gli ebrei, a cui si chiudono mercati, cantieri, alloggi, nel modo più intransigente. Da Giaffa il boicottaggio si espande nei centri maggiori.
Ad aggravre la situazione intervenne la notizia dell’arrivo di mezzo migliaio di ebrei, per via di mare, ciò che ha confermato i cristiani e i mussulmani, che la deprecata immigrazione ebraica, considerata ormai come uno sfruttamento ed una sfida, continua secondo i piani sionistici tutelati dal governatorato. Gli animi eccitatissimi portarono già a delle vittime: in un tumulto un ebreo ferito offrì il pretesto per un più vasto conflitto in cui perdettero la vita tre ebrei e rimasero feriti otto ebrei e un mussulmano.
Ma al Cairo si pensa che questo non sia che un episodio di più vasto disegno; forse un’inatteso e intempestivo inizio di cose peggiori, provocato dai nuovi immigranti. E se ne hanno seri indizi. Il fatto per esempio che le persone più influenti, i più noti dirigenti del movimento nazionale anti-semita, fanno lasciare le città alle proprie famiglie e che i Comitati vigilano perché con queste non ne escano gli uomini capaci di combattere, offre una ragionevole induzione che qualche cosa di grave si prepari.
L’esodo delle famiglie, specialmente delle donne, dei bambini e dei vecchi, è impressionante e si indirizza prevalentemente verso Damasco. C’è da augurarsi che l’Inghilterra intervenga a tempo, che l’Intesa prenda a questa dolorosa e grave questione l’interesse che si merita per la stessa tranquillità in Oriente, già troppo profondamente turbata. La parola Pontificia in proposito appare un monito alla vigilia di pericoli minacciosi.
Una buona occasione, per dimostrare ed attuare tutte le possibili buone volontà sta per presentarsi. Si annuncia che i Comitati nazionali, hanno deciso, di interessare direttamente le Potenze della questione, convinti come sono che i loro memoriali e le loro proteste presentate a mezzo del Governatorato della Potenza Mandataria non arrivino nemmeno a Londra. A tal uopo fu nominata una Commissione di tre notabili: Mons. Gregorio Haggiar, basiliano, vescovo greco-cattolico-melchita di Tolemaide o San Giovanni d’Acri, pei cristiani; di Kuhi Abdul Hadi pei mussulmani; e Negib Nassar uno dei più attivi capi del movimento. La pace e l’avvenire della Palestina, richiedono, che non si commetta l’irreparabile errore di render vano comunque il viaggio di questi Commissari in Europa.
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10 → § 9e
Sionismo e Palestina:
il pericolo della “Nazione ebraica” in Palestina.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 148, p. 1-2
23 giugno 1921, Giovedi
A continuare la diligente documentazione che il nostro giornale si studia di fare, del più interessante e, per molti aspetti, del più grave avvenimento politico attuale, e cioè dell’opera sionistica in Terra Santa, non ci sembra di dover trascurare, una lucida e sintetica nota di Crispolto Crispolti, pubblicata nel vol. VII, fascicolo XXXVI della
Rassegna Italiana, sotto il titolo: «Il pericolo della “Nazione ebraica” in Palestina». Soltanto, osserviamo subito, che alcune premesse alla nota, meritano una precisa rettifica.
Essa prende infatti le mosse dalla Circolare che nell’ottobre 1920 Mons. Barlassina, Patriarca latino di Gerusalemme, inviò a quelle Comunità Cattoliche, e in cui, secondo il Crsipolti, si peccava di soverchio ottimismo. Perché il Patriarca, in seguito ad un colloquio con
Sir Samuel, si sarebbe appagato di vaghe parole cortesi, per dedurne senz’altro e credere «di aver ridato tranquillità non pure ai Cattolici di Terra Santa ma a tutti i Cattolici del mondo». Ottimismo questo – il cui esempio – sempre secondo il Crispolti «veniva del resto dall’alto»: cioè dal Papa dopo la udienza accordata allo stesso
Samuel durante il suo passaggio per Roma, quand’era diretto laggiù ad assumervi l’alto Commissariato Britannico. «Dissero allora i giornali che rispecchiano il pensiero della Curia che il Pontefice era rimasto assai confortato – scrive la nota – dalle dichiarazioni» del funzionario Inglese. E conchiude che «la facilità» con cui il Patriarca ed il Pontefice si dichiararono «soddisfatti ed ormai tranquilli, sulla sorte della Palestina, fu ben lungi dal farsi strada nell’animo» di quegli indigeni.
Ora è da rilevare che Mons. Barlassina, rendendo conto della sua visita – doverosa e opportuna di fronte allo stato degli animi eccitati e per la prudente speranza di servire alla causa della pacificazione e dell’ordine – scriveva nella sua citata circolare come ricevendolo «col dovuto rispetto e cortesia» il Governatore, lo avesse «assicurato che tutti gli interessi religiosi saranno tutelati»; ed aggiungeva: «
Questa dichiarazione, che senza dubbio sarà confermata dai fatti
dovrebbe rassicurare».
È chiaro che qui d’è soltanto l’ottimismo del galantuomo che non ha ragioni preconcette di dubitare della parola di un’alta autorità, la quale
dovrebbe almeno indurre all’attesa della conferma dei fatti. Nessuna illusione, nessuna facilità: solo quell’onesta fiducia, che si manifesta tuttavia prudentemente… con il verbo condizionale.
In quanto all’altro ottimismo che il Crispolti attribuisce al Papa non sappiamo esattamente quali giornali «rispecchianti il pensiero della Curia e del Pontefice» ne abbiano parlato: certo il nostro, no; e non ci sembra questo un particolare trascurabile.
* * *
Ed ora ecco, che cosa scrive, dopo di ciò, l’interessante nota: «Non crediamo di errare se affermiamo che, quando i governi italiano e francese, per bocca
del Barone
Sonnino e del signor
Pichon, diedero la loro adesione alla
dichiarazione fatta da
Lord Balfour, il 2 novembre 1917, a
Lord Rotschild, circa il
National Home che gli ebrei avrebbero ottenuto in Palestina, ben pochi nel nostro paese e in Francia compresero il pericolo che dietro quella
dichiarazione si conteneva.
Il Sionismo se rappresentava da anni un movimento reale era, però, ritenuto generalmente un sogno di esigui gruppi ebraici, che avrebbe trovato si o no lo appoggio di un’elemosina da parte di qualche banchiere frequentatore di Sinagoghe, non un forte finanziamento da parte del più grande organismo internazionale. Quanto all’Italia, le ansie della guerra in Europa di cui non si scorgeva la fine e molto meno la conclusione vittoriosa, e che volgeva in quel tempo avversa alle nostre armi, distraevano l’opinione pubblica dall’assetto di territori che soltanto per l’Inghilterra sembravano rientrare nel giuoco della mal certa vicenda militare.
Giova aggiungere che il proposito di creare in Palestina una
National home per gli ebrei, non fu inteso allora nel suo reale e concreto significato, nè pure dai governi; forse nè meno nel programma
primitivo di
Lord Balfour era sorta la idea di gettare le basi di una vera e propria nazione giudaica.
L’accordo franco-inglese del 9-16 maggio 1916 – comunicato anche al governo russo – stabiliva di porre la Palestina sotto il controllo internazionale; e l’accordo anglo-franco-russo del 6 marzo 1917, dichiarava che, per garantire gli interessi religiosi dei Paesi Alleati «la Palestina, con i
Luoghi Santi, saranno separati dal territorio dell’Impero turco e sottomessi ad un regime particolare conforme ad un accordo fra Russia, Francia e Inghilterra».
A tali accordi pareva dovessero ispirarsi i successivi patti fra le Potenze; ed il regime del mandato per la Palestina, deciso a
San Remo nell’aprile 1920 e fissato il 10 agosto nell’art. 95 del trattato di Sèvres, nel quale veniva pure inserita la
dichiarazione di Lord
Balfour, sembrava sanzionare tali decisioni, tenuto conto del carattere del regime del mandato, quale risulta dall’art. 22 del
Covenant della Società delle Nazioni e dei vincoli che a tale regime vengono imposti.
Senonchè, nei fatti, tale regime doveva subire profonde trasformazioni, quali risultano dalla politica che il governo britannico sta seguendo in Palestina e dal progetto di Statuto per il mandato su di essa presentato il 22 febbraio di quest’anno dal
Foreign Office al Consiglio della Società delle Nazioni, cui ne spetta l’approvazione.
Il Governo britannico non ha aspettato troppo tempo per dimostrare che considerava la Palestina, come terra di conquista. Ed esso – il quale, più di ogni altro governo europeo, svolge la sua azione politica, sotto un rigoroso controllo dell’Internazionale ebraica, ha denaturato il concetto di
National home enunciato da
Balfour e dal
foyer national del
signor Pichon, accettando, piuttosto, il criterio di formare in Palestina un
Centro nazionale ebraico; traducendo, così, in realtà quella che era stata solamente una infelice espressione del nostro ministro degli esteri.
Ed oggi, il Centro nazionale ebraico, è effettivamente il nucleo della futura «Nazione ebraica», cui lavorano per uno scopo comune i finanzieri israeliti del mondo. Per intendere quale prevalenza sia intanto per assumere l’elemento ebraico in Palestina, basta leggere la parte fondamentale del progetto di statuto presentato dall’Inghilterra.
Secondo tale progetto (articolo 4), una «Agenzia ebraica sarà riconosciuta come corpo pubblico, allo scopo di cooperare l’amministrazione della Palestina in quelle materie economiche, sociali ed altre che possono essere in relazione con la creazione del Centro nazionale ebraico, e con gl’interessi della popolazione ebraica della Palestina, e, sempre sotto il controllo dell’amministrazione, di aiutare e di collaborare allo sviluppo del paese». «L’amministrazione della Palestina (art. 6) pur vigilando a che non sia recato pregiudizio ai diritti e alla posizione delle altre parti della popolazione, faciliterà l’immigrazione ebraica, creandole condizioni favorevoli ed incoraggerà, d’accordo con l’agenzia ebraica, gli ebrei a stabilirsi in Palestina, anche in quelle terre del demanio e nelle zone incoltivate che non siano state requisite dal governo per scopi di utilità pubblica». «L’amministrazione della Palestina (art. 7) dovrà promulgare una legge di nazionalità. Questa legge comprenderà varie disposizioni destinate a facilitare l’acquisto della nazionalità palestinese agli ebrei che fissino il loro domicilio in Palestina». «L’amministrazione potrà accordarsi (art. 11) con l’Agenzia ebraica per costruire o intraprendere, a condizioni normali e convenienti, tutti i lavori e i servizi di pubblica utilità e per sviluppare le risorse nazionali del paese per quanto questi non siano intrapresi direttamente dall’ amministrazione».
Gli articoli di tale progetto esprimono ben chiaramente quale dovrebbe essere – nel programma del governo inglese – l’avvenire della Palestina. Ce lo dimostra ancor meglio – e non ce n’era bisogno – uno degli organi del sionismo – l’
Israel, nel numero del 24 febbraio, quando afferma: «È inutile sottolizzare sul contenuto della formula giuridica che siamo riusciti ad ottenere; se anche tutte le potenze concordi oggi ci avessero detto di volerci dare «lo Stato», noi non lo avremmo voluto perché non siamo ancora in grado di averlo. Domani, quando con il nostro lavoro ci saremo messi in grado di averlo, lo
Stato ebraico sarà, quale che sia l’ampiezza della formula…», e poi ancora: «il mandato britannico è la base, lo jesod vero e proprio sul quale l’edificio di tutto il futuro Israele potrà appoggiarsi». Ed il proposito britannico di dare appunto. «lo stato agli ebrei» ha avuto la sua prima affermazione nella scelta di un israelita ad Alto Commissario.
Ora non v’ha dubbio che, non ostante la
dichiarazione circa il
National home inserita nel trattato di Sèvres, non rsiponde allo spirito del regime del mandato un assetto territoriale il qaule affidi a una minoranza il governo di una maggioranza. E ciò ha formato la base della agitazione che l’elemento arabo-musulmano ha iniziato contro il progetto di statuto britannico e contro l’elemento ebraico. Tale agitazione – malgrado i tentativi compiuti ed ancora non abbandonati
da Winston Churchill – non è più contenibile nelle forme legali di platoniche proteste, ma già si concreta in una azione popolare che risponde ad una vasta organizzazione e già arrossa di sangue la terra della Palestina. Non siamo che al principio; ma ciò è già sufficiente a dimostrare che il mandato britannico in Palestina, anzichè apportare finalmente la pace nella vasta regione, apre il campo ad una serie di torbidi le cui conseguenze non possono essere calcolate, ma non appariscono certo liete nè pure per quell’elemento ebraico sionista, il quale non esita a proclamare oggi il proprio trionfo.
Ma se il diritto degli arabi è sul punto di affermarsi vigorosamente con i fatti, e già trascende nell’azione diretta per evitare un dominio repugnante all’elemento musulmano, sia sotto il rispetto religioso, sia sotto quello politico, il Consiglio della Società delle Nazioni non può dimenticare anche i diritti dei cristiani in genere e dei cattolici in specie. I quali se per essere meno numerosi e forti dell’elemento arabo, contengono la loro protesta contro la minaccia ebraica nei limiti della legalità, legittimamente, tuttavia, pretendono che i loro diritti morali e materiali non vengano minacciati e vulnerati.
La violazione che d’ogni principio di libertà e di ogni storica tradizione si sta tentando in Palestina, non può essere tollerata dal Consiglio della Società delle Nazioni, se non si vuole che il suo atteggiamento rappresenti la esplicita confessione che la Società stessa non è che un organo britannico al servizio dell’ebraismo.
Le nazioni latine non possono – senza rinnegare i loro diritti secolari, consacrati con il sangue e con il martirio, – non chiedere ed ottenere che il progetto di statuto presentato dalla Inghilterra subisca profonde modificazioni e che il governo britannico limiti il programma nel quale si è ingigantita la primitiva formula di Lord
Balfour.
Se ciò non dovesse avvenire, non solo la Terra Santa dei Cristiani sarebbe perduta per la cristianità, non solo sarebbero conculcati i diritti della maggioranza non ebra, ma ciò vorrebbe dire che con la complicità di tutte le Potenze alleate si è cercato di cancellare duemila anni di storia proprio là dove essa ha preso inizio, dove sono eretti i suoi più antichi monumenti, dove sono contenute le sue più sacre reliquie. Ma vorrebbe dire, altresì, che, sostituita, in apparenza, al dominio ottomano la libertà delle nazioni cristiane, queste hanno, in realtà, decretato la nuova più dura oppressione del Paese di Gesù. Non curando se la terra che sembrava finalmente dovesse essere riconsacrata alla pace si prepara – pel riaccendersi violento delle lotte di religione e di razza – a tingersi nuovamente di sangue».
* * *
Non si potrebbe neglio riassumere una situazione, che troppi i quali non sanno e non vedono, e molti che non vogliono sapere ne’ vedere, si ostinarono e si ostineranno a misconoscere nella sua gravità. Solo, dal canto nostro, accenniamo qui, al pensiero già chiaramente espresso, in varie nostre corrispondenze.
L’incendio sanguinoso che minaccia di tormentare la Palestina, e i cui eccessi, pur ricadenso a maggior danno dei provocatori, saranno sempre deplorevolissimi, quanto sono deprecabili, non sarà contenuto certamente tra i confini della Terra Santa, ma divamperà in tutta quella agitata parte dell’Oriente, dove da molto tempo si attende una pacificazione non meno ipotetica, purtroppo di quella d’Europa.
Con questa differenza: che qui, i freni di molteplici interessi, non mancano a contenere il malcontento: mentre laggiù non esistomo, soprattutto fra popolazioni meno disciplinate, più impetuose e di civiltà diverse e contrastanti.
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11 → § 10e
Sionismo e Palestina:
misteriose trattative fra Sir Samuel e il suo Governo.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 153, p. 1
29 giugno 1921, Mercoledi
(Nostra corrispondenza). PARIGI, 25. - L’alta parola del Santo Padre sulle condizioni della Palestina, ha potuto aggiungere al carattere prevalentemente politico del grave problema orientale, quello religioso e morale che allarga ed innalza – interessandovi tutto il mondo cristiano – la penosa questione.
Il Governo Palestinese, sotto il cui nome ormai meglio che non quello dell’Alto Commissario Britannico, si ama parlare dei destini di Terra Santa, ha dovuto per forza convincersi che il conflitto antisionistico, non poteva essere considerato in Europa, come frutto di soli antagonismi religiosi, nè come semplice reazione contro la infiltrazione bolscevica: e soprattutto non lo era, in realtà, in Palestina.
Quivi è una fra le più ardenti e vive questioni del diritto dei popoli, a vivere, a lavorare, nella terra patria, e provvedere alle sue sorti, senza il prepotente intervento di sogni archeologici-sentimentali, e politico-commerciali d’altrui. Non quindi una questione interna, ma internazionale; non specifica e particolare ma pregiudiziale, dinnanzi a cui la Potenza mandataria non può prescindere dal pensiero e dalle decisioni delle Potenze mandanti.
Tale indicazione viene da una duplice fonte, da due differenti indicazioni ma concordi: dal popolo palestinese, che ha durante le ultime tumultuose dimostrazioni, inneggiato alle Potenze dell’Intesa, alla Francia, soprattutto e all’Italia, dinanzi ai cui Consolati in Giaffa, si acclamò al loro intervento e dalla parola del Sommo Pontefice intesa a richiamare l’interessamento delle Potenze stesse, su fatti e problemi, i quali non rientrano nel campo dell’ordinaria amministrazione di un Paese.
Il Governo Palestinese, pertanto, muove prudentemente ai ripari. Nell’ultima corrispondenza (v.
Osservatore del
23 corr.) rilevavamo il fermento minaccioso in tutto il Paese, o le proteste gravissime sorte per l’annunciato sbarco di nuovi immigrati ebrei, che le popolazioni si apprestavano di impedire persino con la forza. Ne è chiaro il riflesso in questa nota, diramata, secondo l’Alif Ba Damasco, fino dal 14 Maggio alla stampa palestinese, da quel Governo, e più tardi resa nota ai quotidiani di tutti i paesi:
«Si fa noto a tutti gli abitanti che S. E. l’Alto Commissario è attualmente in trattative ininterrotte con il Governo della Gran Bretagna a Londra per la risoluzione di alcune questioni di rilievo che concernono l’attuale momento sociale della Palestina e la sua prosperità.
Il Governo Palestinese nutre fiducia che tra non molto le circostanze gli permetteranno di rendere di pubblica ragione l’andamento delle trattative stesse e l’esito che avranno sortito. Esso poi comunica alla popolazione che l’immigrazione sionista nel paese resta da questo momento sospesa».
Dette trattative misteriose fra
Sir Samuel e il suo Governo, e del loro eventuale risultato il popolo non si preoccupa soverchiamente, perché si fa sempre più vasta e profonda nelle masse la persuasione, che, a risolvere il problema palestinese, Londra non basti e non possa farlo da sola, e perché, l’esperienza ormai avverte dopo la visita
di Churchill, che nella metropoli non vivano e non agiscano minori simpatie e influenze sionistiche che a Gerusalemme.
Ciò che invece ha provocato le più aperte e significative dimostrazioni di giubilo, come pe run autentica e concreta vittoria, si fu l’annunzio dela sia pur temporanea sospensione della immigrazione ebraica. Non mancarono è vero le proteste sionistiche e alte e forti come per il sacrosanto diritto leso ed un patto ben chiaro improvvisamente vulnerato. Ma tutto ciò parve inopportuno ed inabile allo stesso Governo Palestinese ed all’Alto Commissario, siccome manifestazione pericolosa, in momento delicato, di una intransigenza irriducibile e di un proposito ostinato da parte dei Sionisti e di impegni tassativi e difficilmente modificabili da parte dell’Inghilterra.
Comunque sia le popolazioni palestinesi non disarmano; e si ingannerebbe chi potesse illudersi di addormentarne i vigili sospetti, con questi temporanei provvedimenti, e con sì superficiali mitigazioni di un programma che pende, malgrado tutto sulla Palestina, come una fatale spada di Damocle. Il popolo attende e i Comitati lavorano, traendo dalla breve tregua, maggior forza per organizzare la loro resistenza. Frattanto – fatto notevole – secondo le prime notizie che se ne hanno la parola pontificia è sopraggiunta ben eloquente e confortatrice.
Non eran mancate insinuazioni secondo cui, il Patriarca di Gerusalemme e il Papa, si sarebbero troppo facilmente accontentati delle assicurazioni di Sir
Samuel; e la voce non incontrò fiducia nel Paese, ebbe, almeno diffusione interessata all’estero. L’Allocuzione concistoriale sfata simile asserzione – intesa a far credere che i Comitati indigeni restavano abbandonati a sè stessi, persino dalla più alta autorità religiosa della terra – e il Patriarca riafferma agli occhi di tutti il suo prestigio, non solo di fronte ai cattolici ed ai cristiani, ma ai mussulmani stessi, già da tempo insospettiti che l’ortodossia greca, non ostacoli il sionismo, per i suoi disegni di espansione in oriente. Fatto è che la portata dell’intervento del Papa è così significativa, che non manca chi corra ai ripari e tenta di falsarne il contenuto. Secondo La Bourse – bel nome ebraico – del Cairo, per esempio, l’accenno del Papa alla profanazione dei
Luoghi Santi è accolto con ironia poiché ci assicura che quando parla di ritrovi mondani il Pontefice intende evidentemente riferirsi al fatto che Gerusalemme comincia ad essere una città moderna e civile, comoda e sicura. E si aggiunge: «Il fatto è che – se non come la Mecca – per lo meno come la Città Santa di Roma, Gerusalemme comincia a avere oggi strade illuminate e praticabili, buoni alberghi, caffè e persino cinematografi».
La Bourse confida persino che il signor Jonnart persuaderà il Papa che la sua buona fede è stata sopresa. Ora i circoli sionistici fingono di dimenticare, sol perché fa loro comodo, come essi medesimi, ebbero troppa fretta, di annunciare, sin dall’inverno scorso, i loro disegni sfruttatori del bel suolo di Terra Santa, e noi stessi, documentammo (v.
Osservatore Romano, 25 Febbraio).
Un giornale sionistico di Palestina recava che una grande società si era costituita colà con lo scopo di preparare in alcune parti del paese, e nominatamente sul Carmelo luoghi di villeggiatura, largamente provveduti dei più raffinati mezzi di comodità e di lusso. Con questo mezzo la società contava di attirare gli Egiziani i quali fino adesso villeggiavano parte nel Libano, parte in Europa. Secondo alcuni, – notava il giornale – questi soggiorni estivi faranno concorrenza al Libano sia per la maggiore vicinanza che hanno con l’Egitto, sia perché i promotori sono disposti ad adoperarsi con ogni impegno per arricchirli di comodi e di mezzi di divertimento. I gravi disagi che l’estate scorsa incontrarono i villeggianti affluiti dal Libano, disagi dovuti principalmente alle difficoltà di trasporto e di comunicazione, fanno sperare agli imprenditori della suddetta opera un lusinghiero successo.
Non si tratta adunque precisamente di tramvie, di buone strade, e di buoni alberghi, piuttosto di case da giuoco, con tutto ciò che suole interessarle, nei maggiori centri di piacere del mondo: sicchè se fosse vero che il Papa fu sorpreso nella sua buona fede, lo sarebbe stato dagli annunzi degli stessi ebrei non usi – in fatto di sfruttamento commerciale – ad ingannarsi. Ma senza attenersi alle testimonianze ebraiche, da questo lato piuttosto guardinghe e circospette, è ormai noto che non solo sul Carmelo, ma in Galilea, nei luoghi della maggior poesia evangelica, l’Israele commerciale intende piantare i suoi lussuosi padiglioni ed ospitarvi i gaudenti internazionali.
Siamo così al più delicato e forse più decisivo volto della questione; poiché è ormai la coscienza cristiana che si desta accanto a quella indigena di Palestina.
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Cap. 11 ↓ c.
12 → § 11e
Sionismo e Palestina:
l’introduzione del bolscevismo.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 157, p. 1
4-5 luglio 1921,
Lunedì-Martedi
(
Nostra corrispondenza). PARIGI, 2 luglio. - Mentre la Commissione dei Comitati indigeni, muove verso l’Europa per esporre direttamente ai Governi, quanto cristiani e mussulmani affermano che non fu mai loro riferito, nè da Gerusalemme, nè da Londra, sulla reale situazione della Palestina, ne continua la documentazione attraverso qualche giornale cui giunge qualche rara corrispondenza recapitata senza censure.
Il
Tablet per esempio, rievocando aneddoti impressionanti delle giornate sanguinose di maggio, riferisce una constatazione del capo o sindaco di una delle principali colonie «Rothskild», centri esclusivamente ebrei. Sono trenta e più anni – diceva questo
maire, al corrispondente stesso del
Tablet – che vivo in questa colonia ebrea: mai ebbi noia alcuna dagli Arabi fino all’inizio dell’attuale movimento sionista che rovina tutta l’opera nostra. Un ebreo di Giaffa dichiarava a Gerusalemme il 2 maggio: «Non sono gli Arabi, no, non sono gli Arabi; ma i nostri correligionari che spinsero gli Arabi ad attaccarci».
Come ho avuto occasione di accennare in altra corrispondenza (v.
Osservatore del
1 maggio) l’elemento ebreo indigeno non si avvicina più dei mussulmani e dei cristiani, agli immigrati sionistici, nè meno nè ne temono il movimento invasore e sopraffattore. Per tutti i Palestinesi, gli ebrei compresi, il sionismo non appare ormai che come un’arma politica inglese a cui si accoppia, tacitamente, nella speranza di tranquillizzare i cristiani almeno, il movimento nazionalista greco in Oriente per la lunga mano della Chiesa Greco-ortodossa.
Per reazione, sempre più manifesta, le simpatie verso la Francia ed il Patriarcato latino di Gerusalemme si accentuano; verso l’una pe’ suoi interessi contrastanti a quelli inglesi, verso l’altro per la sua indipendenza d’ogni politica perturbatrice in Palestina. Per le stesse ragioni l’Italia non manca di popolarità. Autorevoli ed esperti indigeni ritengono che una consultazione popolare assegnerebbe il 99 per cento dei voti alla Francia. A tutto questo si aggiunga la minaccia sempre più grave del bolscevismo che gli indigeni giudicano una epidemia importata dagli immigrati sionistici; epidemia che proprio in questi giorni un fiero movimento antisemita americano, denunciava in America, provocando provvedimenti ben diversi.
Moussa Kazaiur Hosainy, presidente del Comitato esecutivo antisionistico ha avuto occasione in questi giorni di dire:
«Abbiamo continuamente avvertito i governi alleati del fatto che gli immigrati ebrei introducono e divulgano in Palestina i principii del bolscevismo: ma non fummo ascoltati, sebbene il Governatorato stesso non ammettesse che i disordini del maggio scorso siano stati provocati dagli Ebrei e da essi iniziati. Noi chiediamo quindi che l’immigrazione cessi».
Non si tratta quindi solo di sospenderla, si tratta di provi termine definitivo: il che vorrebbe dire il fallimento del Sionismo. Non sarà facile che a Londra si ceda su questo punto: ma in Palestina nessuno dubita che ci si arriverà. L’accoglienza che la Commissione antisionista avrà in Europa, pende come spada di Damocle, sullo stato attuale delle cose. Dalla risposta che essa recherà, dipende infatti o la pace rifatta dalla sconfitta sionistica o una lotta senza quartiere.
Giunge pertanto in buon punto il Congresso Sionista di Praga indettovi per 18 luglio con carattere addirittura mondiale. Il Sionismo sente di aver troppo osato e che gli manca terreno ogni giorno di più: ha bisogno quindi di rialzare, se gli riescirà, le sue azioni riesponendo il suo programma e tentando di renderlo più accetto che ormai non lo sia all’opinione pubblica mondiale. Sarà il tuo uno sforzo notevole. Circa un centinaio di notabilità ebree, hanno inviato la loro adesione preventiva e la promessa del loro intervento. I più grandi nomi della finanza internazionale e degli affari figurano così fin d’ora tra i congressisti. Tuttavia non sarà facile, nemmeno a quest’ultra potente manipolo di oligarchi della plutocrazia d’ogni gente, superare i molti scogli di un mare ormai infido: poiché come le regole anche i proverbi, hanno le loro eccezioni. Non è sempre detto che l’oro possa veramente tutto.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 205, p. 1
31 agosto 1921, Mercoledi
L’Agenzia Stefani comunica da Carlsbad 30 che il 1. settembre si inaugureranno colà le sedute del XII Congresso sionistico mondiale. Data l’importanza assunta – continua il comunicato – dalla questione sionistica, e dalle rivalità tra ebrei e arabi da un lato, e tra le Potenze dall’altro sull’assetto della Terra Santa, i deliberati del Congresso avranno notevole influenza oltrechè sugli ebrei di tutto il mondo per un maggiore impulso al loro movimento, anche sui buoni rapporti tra le Potenze. In settembre infatti sarà discusso dinnanzi alla Lega delle Nazioni il progetto del mandato inglese sulla Palestina.
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Cap. 13 ↓ c.
14 → § 13e
Sionismo e Palestina:
le promesse contradditorie di Balfour.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 216, p. 1
12-13 Settembre 1921, Lunedi-Martedi
(Nostra corrispondenza). PARIGI, 9 settembre. – Alle discussioni ed ai voti che si vanno pubblicando del Congresso Sionista, fa riscontro una pubblicazione dell’Alif Ba di Damasco circa le dichiarazioni di Mosè Kazem Pascià, Capo della Delegazione Araba di Palestina in Europa, fatte alla stampa durante il suo passaggio per Alessandria d’Egitto.
«Siamo stati eletti e mandati a Londra per reclamare a nome del nostro paese l’abolizione della promessa di Balfour e la soddisfazione di tante altre aspirazioni di un popolo che lotta per non lasciarsi strappare dalle mani ciò che ha di più caro, cioè la patria. Durante la guerra l’Inghilterra impegnò gli Arabi nella lotta contro i Turchi che pure erano loro correligionarii e in compenso prometteva al Re Hussein la costituzione di un regno arabo bene organizzato. In appresso fece anche agli ebrei la celebre promessa di Balfour. Di queste due promesse, la prima è giusta ed attuale, la seconda però non punto conforme al diritto ed è quindi irrealizzabile.
La Palestina è terra nostra; l’abbiamo ereditata dagli avi e la dobbiamo tramandare ai posteri. Non è di competenza di nessuna potenza intromettersi nelle faccende di questo nostro possesso ereditato da secoli. E se i Giudei avessero sulla Palestina qualche diritto, lo avrebbero dovuto far valere da parecchie centinaia di anni.
Kazem Jascià disse ancora: Abbiamo subìto un’amara delusione. Ci ribellammo alla Turchia ma cademmo in mano agli ebrei immigrati dalla Russia, dalla Polonia e da altri paesi e imbevuti dello spirito bolscevico. Costoro hanno occupato le più importanti cariche e imposto leggi e imposizioni al popolo. Anzi nuovi uffici sono stati istituiti con stipendi esorbitanti e affidati ad Israeliti, senza che ve ne fosse bisogno. Onde si ha che il paese versa in deplorevoli condizioni economiche e morali, mentre i nazionali, sono tenuti lungi dalle cariche pubbliche. Abbiamo sentito il dovere di gridare alto sulla stampa, ma la censura ci ha sempre chiuso la bocca.
Per questo il popolo ha riposto in noi la fiducia e ci ha affidato la missione di compiere i più grandi sforzi per revocare la promessa di Balfour, abolire l’idea di un centro nazionale ebraico e sospendere l’immigrazione sionista fin tanto che non sarà eletto un Parlamento nazionale. La nostra forza poggia sul diritto che il mondo ci riconosce e ci aiuta perciò a conseguire. Anche in Inghilterra, il pubblico è a giorno dei pericoli che attendono la Palestina.
È inutile poi ricordare che tutto il popolo Palestinese è compatto dietro di noi, e sempre ci accompagna coi suoi voti. La dimostrazione con cui ci ha salutato il giorno della partenza è di ciò una garanzia sicura. Anche le signore riempivano le vie e ci gettavano fiori, e, non paghe ancora, spargevano sopra di noi nelle carrozze oro e gioielli, invocando lo spezzamento del giogo sionista. Un popolo che con sì nobili segni afferma il suo amor di patria, è evidentemente maturo per il Governo di sè stesso. Che se l’Inghilterra non volesse ciò ammettere, ci faccia essa stessa da guida, ma non affidi tale compito al Sionismo. Poiché gli ebrei mentre dichiarano di voler rinnovare i fasti della loro storia in una terra che portava il loro nome, in realtà mirano solo ad avere una valvola di sicurezza per sfuggire alla reazione che irromperà contro di loro dall’Europa Orientale, dove i loro principii bolscevichi e i tentativi di dominare il mondo ha gettato la Russia e la Polonia nella più nera desolazione.
Abbiamo gridato a perdifiato contro le funeste conseguenze del Sionismo. Ecco perché ora abbiamo deciso di andare a Londra per esporre colà i guai che ci ha arrecato questo fenomeno, lasciando poi al mondo civile di giudicare la nostra causa».
Tali dichiarazioni non sono che il riassunto di un dettagliato memoriale presentato
a W.
Churchill Ministro delle Colonie dell’Impero Britannico allorché recatosi in Palestina alla fine del 1920 vi ricevette una Delegazione del Comitato esecutivo del Congresso Arabo di Caïffa.
Il Congresso Sionistico e il governo inglese
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 216, p. 1
12-13 Settembre 1921, Lunedi-Martedi
CARLSBAD, 11 (S.). – Il Governo inglese ha inviato al Presidente del Congresso Sionistico il seguente telegramma:
«Vi piaccia trasmettere al Congresso Sionistico il cordiale augurio del Governo di Sua Maestà che confida che il successo coroni i vostri sforzi per ricostruire la Palestina rendendola un Paese florido e prospero ove gli ebrei e gli arabi possano collaborare per assicurare il bene comune».
Dopo il Congresso Sionistico
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 230, p. 1
29 Settembre 1921, Giovedi
Il Congresso Sionistico di Carslbad si volse precipuamente ad uno scopo esteriore e politico. Si propose cioè di combattere, con i discorsi dei suoi più autorevoli, con i voti presentati all’assemblea, la diffidenza innegabile con cui è accolta dall’opinione pubblica europea e americana l’attività sionistica in Palestina, e dar valore di legittimità e quasi di irredentismo, all’odierno movimento ebraico verso la Terra Santa.
Il Congresso tuttavia non mancò di preoccuparsi della vita interna, dell’organizzazione, della propaganda del Sionismo, convinto che ad attuarne i vasti disegni, occorra tenace fermezza di volontà e mezzi cospicui. Ed anche qui non gli si piò negare un certo ottimismo, ma destinato probabilmente a miglior fortuna che non abbia conseguito per la parte politica accolta dalla stampa con prudenti riserve.
Ciò che avviene infatti in Palestina, è troppo grave nella realtà quotidiana e nelle ben prevedibili conseguenze, sì per mondo cristiano, come per quello mussulmano, perché savie parole di moderazione, di rispetto ai diritti religiosi, politici, economici degli indigeni, di armonia, di pacificazione, pronunciate a Carlsbad, da chi forse non vive, nè vivrà mai all’ombra del «Foyer nazionale ebraico» possan essere considerate, senz’altro, fiduciosamente, indice di tempi e di metodi nuovi.
Nulla di diverso, di men saggio e prudente fu mai detto laggiù. ripetutamente, a cristiani e ad arabi. I propositi di ragionevolezza e di scrupolosa deferenza verso i Palestinesi, prima che al Congresso sionistico, si formularono a Gerusalemme, non appena le popolazioni di Terra Santa mostrarono di diffidare dei nuovi ospiti, e dei loro disegni; eppure gli avvenimenti furono ben lungi dal rispecchiare il programma tante volte annunciato; e garanzie, ed eguaglianze e diritti rimasero sulla carta, mentre gli indigeni dopo le inutili proteste, passarono alle minaccie, alle insurrezioni, all’appello, finalmente, diretto per mezzo di proprii rappresentanti, alle Potenze europee.
Si potrà quindi prender atto una volta ancora dei solenni impegni che il Sionismo ha voluto riassumere dinnanzi al mondo civile, ma non si può, ormai, per troppo recenti esperienze, non attenderli ai fatti, e pensare che se saranno rose a Gerico, fioriranno. Tanto più che se dalle cronache di Carlsbad si andasse proprio cogliendo fior da fiore, ci imbatteremmo in qualcuno che non odora davvero dei puri profumi di Ebron.
L’adesione. per esempio, di
Sir Samuel, Governatore di Palestina, inviata al Congresso sionistico. in termini sionistici, contraddice abbastanza eloquentemente ai doveri di imparziale riserbo, proprii dell’alta Magistratura ch’egli ricopre e dei quali si dichiarava conscio e compreso fino allo scrupolo. Così pure alcuni giornali riferirono che delle intenzioni equanimi del Sionismo circa l’assetto di Terra Santa. era stato riverentemente informato il «venerabile Capo della Chiesa Cattolica» che non aveva taciuto il proprio compiacimento; mentre questo, che vorrebbe essere un idiliaco episodio cristiano-sionistico, a quanto ci consta, non è affatto esistito, se pure costituisca un pio desiderio più avveduti.
Ma, in verità, si illuderebbe il Sionismo, se opinasse che le molte spine che ancora cospargono la sua lunga via, spuntassero dalla particolare questione riflettente il modo con cui i suoi emissari e rappresentanti ne attuano il programma e ne perseguono gli scopi in Palestina, piuttostochè dalla pregiudiziale legittimità e possibilità di questo programma e di questi scopi.
Sembra infatti un po’ troppo ingenua, l’ostentata persuasione, che intorno alle nuove aspirazioni ebraiche, sulla terra degli antichi avi, sia unanime ormai e pacifico il consenso mondiale; mentre anche al lucignolo dei principii wilsoniani o di Versaglia – tavola di salvezza e punto di partenza dell’odierno Sionismo, – le rivendicazioni giudaiche non reggono di fronte alle ragioni di conservazione dei propri diritti e possessi che i Palestinesi propugnano vigorosamente, senza attenuazioni e transigenze, in una lotta dichiarata a qualunque costo.
I principii storico-etnici, che han fatto il giuoco di tante laboriose discussioni, di tante speranze non sempre fortunate, ci riportano nella fattispecie a circa venti secoli or sono, sì che autorizzerebbero la più colossale rivoluzione politica che mente umana possa immaginare. Giacché se essi valessero davvero per gli ebrei, dovrebbero valere per altri, per moltissimi altri, e potremmo chiederci quale territorio, quale nazione in Europa non dovrebbe subire variazioni e spostamenti radicali, senza dire che il movimento pan-negro in Africa e gli stessi Pelli-rosse e Pelli-bronzo nelle due Americhe, potrebbero avanzare a Ginevra chissà quali pretese catastrofiche.
Non per nulla un memoriale del Comitato esecutivo del Congresso Arabo di Caiffa, osserva: «Per tal guisa gli Arabi dovrebbero esigere la Spagna; i Turchi, i Paesi Balcanici fino alle porte di Vienna». Nè con minore validità di argomentazione il Ministro Sforza rispondeva ad un sostenitore dei diritti greci in Asia, che con la sua logica di memorie millenarie, gli Elleni potrebbero reclamare dall’Italia, nientemeno che la Magna Grecia!
Che se pure, compiacenti ed immprovvise simpatie per le aspirazioni ebraiche, concedessero la sanatoria alle insostenibili pretese storico-etniche, continuerebbero a zoppicare assai le ragioni giuridico-politiche.
Occorre infatti chiederci: che cosa sono gli ebrei? Un popolo? Un popolo, intendiamo, nel senso politico della parola, oppure una razza ed una chiesa? Non v’ha dubbio che si tratta di una unità etnico-religiosa, ma non già di un popolo; poiché i dodici milioni di israeliti sparsi sulla faccia della terra, si distribuiscono da secoli in cittadinanze ben distinte, a cui, in varie occasioni, per differenti e spesso contrastanti doveri, non mancarono di dichiarare la più indettibile fedeltà. La stessa guerra mondiale li trovò divisi sulle varie trincee, a combattere una lotta, che non pensarono mai fosse per essi fratricida; – mentre, tra parentesi, sono oggi i soli che alla vittoriosa potenza dell’Intesa chiedono un aiuto, una protezione, un premio, come se gli ebrei non appartenessero in buon numero, fors’anco in maggioranza, ai popoli ieri nemici e vinti.
Ed è tanto vero tutto ciò, che di fronte ai varii milioni di israeliti, inglesi, francesi, italiani, spagnuoli, tedeschi, russi ed americani, solo circa ottomila – se i conti non fallano – sono ora immigrati in Palestina sotto l’impulso sionistico a tentare riscosse egemoniche su mezzo milione di Arabi e varie decine di migliaia di cristiani. Gli altri, – la maggioranza, la quasi totalità – non pensano affatto, nè lo nascondono, di staccarsi dai paesi natii, dai centri delle loro aderenze, dei loro affari, delle loro fortune.
E allora, su quale unità giuridico-politica, presente e futura, si fondano le nuove aspirazioni; questa subita nostalgia, questo impaziente irredentismo della terra dei padri, scambiata già con tante altre, più cospicue, più ospitali, più utili? Quali diritti si possono mai reclamare, a costo di turbare il secolare e incontrastato possesso degli indigeni palestinesi, per la sostituzione di uno «Stato di riserva…», di uno «Stato villeggiatura»? per una «doppia cittadinanza» da far valere la scelta, a seconda delle eventuali circostanze?
Si tratta di un caso sì straordinario ed anormale, che difficilmente potranno bastare, come dicemmo, le accademiche dichiarazioni dei Congressi, per tranquillizzare e persuadere la coscienza del mondo. Quella coscienza cristiana, cioè, che non può dimenticare, e in realtà non oblìa affatto, come la Palestina, sia la sua Terra Santa; Gerusalemme la sua Patria spirituale, e ben più sacra per vincoli di fede e di civiltà, di pensiero e di memorie, che non lo siano le singole terre natie. Dove il sacrificio di Cristo, voluto da un popolo che, se ne proclamò responsabile per sè e per i suoi figli, nei secoli, dinnanzi al giudice umano come a Quello divino, costituisce di fronte alla storia ed alla civiltà mondiale una tale prescrizione di qualsiasi diritto, da non aver certo bisogno di invocare venti secoli ormai trascorsi a suo favore, per essere ratificata da un qualsiasi Trinunale politico. - T.
La questione israelita e i cattolici francesi
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 239, p. 1
9 Ottobre 1921, Domenica
(Nostra corrispondenza). PARIGI, ottobre. – Si attribuisce alla Francia, soprattutto pei suoi interessi d’Oriente, la maggiore attività antisemita e antisionistica. Ora è giusto rilevare, che se da un lato questa opinione ha un fondamento di verità, non lo ha certamente circa la natura e gli scopi di questa sua azione morale e politica, e tanto meno per quello che ne può essere il contributo dei cattolici francesi. Della questione – è noto – si preoccupò l’ultima Settimana dei nostri scrittori cattolici su una limpida relazione di Jean Guirand le cui conclusioni meritano applausi unanimi.
Per darsi una idea precisa dei principii a cui fan capo in proposito con i pubblicisti i cattolici tutti di Francia, conviene conoscere tale relazione in cui prevale un perfetto senso di equilibrio. Essa ci ha fatto distinguere la religione giudaica dalla potenza politica e sociale degli ebrei nel mondo moderno.
La religione ebrea merita certamente i nostri riguardi. Noi non dobbiamo dimenticare che essa fu sotto l’Antico Testamento la vera religione e la preparazione della nostra. I patriarchi ed i profeti sono onorati dalla Sinagoga e dalla Chiesa; la maggior parte dei canti della nostra liturgia sono comuni ai cattolici ed agli israeliti, e sarebbe davvero dimenticare le origini e le fondamenta stesse della nostra religione rigettare la Bibbia ed i Santi dell’Antica Legge. E lo comprese tutta la tradizione cristiana: l’Inquisizione non pereguitò mai gli ebrei a ragione della loro fede religiosa, ed i Papi, alla loro assunzione al Soglio, ricevendo l’omaggio degli ebrei di Roma, non mancarono di ricordare loro le relazioni strette che vi sono tra la Fede cristiana e la Fede giudaica.
I cristiani si guarderanno quindi dallo imitare gli antisemiti che, per una strana confusione, attentano di un colpo alla Bibbia ed al Talmud, ai Santi dell’Antico Patto ed agli ebrei che fanno pesare sul mondo la tirannide della loro potenza cosmopolita. Gli scopi di questa potenza ed i mezzi coi quali essa si esplica, meritano tutta la nostra attenzione. Se come adoratore di séhorah l’ebreo ha diritto alla tolleranza ed al rispetto, esso non ne ha più di quello che spinto dall’odio di razza e dalla sete di dominio, nutre verso il Cristianesimo quella ostilità e quell’avversione che spiccano in tante pagine del Talmud.
Distinguiamo adunque ben bene l’aspetto religioso da quello politico e sociale nella questione ebraica. Per molto tempo fu di moda in certi ambienti negare la potenza
della Massoneria; coloro che la denunziavano quale una cospirazione permanente contro il Cristianesimo erano considerati come fanatici, allucinati, anche in certi ambienti cattolici; e quelli che contrariavano una tale cecità si credevano spiriti larghi e passavano come amici della luce.
È la stessa cosa per la potenza politica degli ebrei. Prima del gran colpo di Drumont, denunziare la cosa sembrava una monomania; nonostante la luce che il fatto ha proiettato su questo punto, la
Francia giudaica fu considerata per molto tempo e da molti cattolici come il sogno di un uomo alterato che vede dovunque nemici immaginarii. Per non compromettersi con i bizzarri spiriti antisemiti, certi liberali e certi cattolici, facevano comunella con ebrei e credevano così di dare prova d’intelligenza e di illuminato spirito.
Questa cecità permise alla
Massoneria ed al giudaismo di estendere senza grandi opposizioni la loro potenza in ogni Stato e pel mondo intiero. Ma più si sentì la loro azione più si fu portati a studiare la loro organizzazione ed a constatare in tutto il mondo l’influenza della
Massoneria e del giudaismo: così gli spiriti illuminati dovettero riconoscere che queste potenze sono in funzione e che ambedue si aiutano vicendevolmente.
Vi è dunque ormai una questione ebraica ed una questione massonica che potrebb’essere facessero una questione sola che si può conoscere col metodo delle scienze storiche e sociali. Soggiungiamo la cosa tenta le ricerche dei sociologi, giacché quanto più questa questione massonico-giudaica sarà illuminata, tanto più delineerà la sua potenza; ciò che sin oggi costituì la forza sua principale fu il mistero, dietro il quale essa progredì senza destare le diffidenze né provocare reazioni o difese.
Ciò che temevano i cristiani dell’età di mezzo non erano i giudei dichiarati e che facevano alla luce del giorno le loro operazioni commerciali o finanziarie: quelli erano ben soventi sotto la protezione dei Vescovi e del Papa e sotto il controllo dei governanti. I nemici veramente temibili della società cristiana, erano i giudei organizzati in mezzo ad ogni popolo in società segrete, e che si celavano talvolta con finte conversioni tra le file dei cristiani. E questi furono quelli ricercati e colpiti come un pericolo sociale permanente dalla Inquisizione spagnuola.
Non è oggi questione di ricorrere a mezzi violenti e nessuno lo sogna. Ma occorre mettere alla luce l‘azione giudaica, onde gli Stati e la società possano difendersi con [
refusi illegibili]. Fra coloro che recentemente ci misero in guardia contro il pericolo mercè studi profondi giova ricordare particolarmente Lambelin con «Regno d’Israele fra gli anglo-sassoni», ed i fratelli Thoraud, col «Quando Israele comanda», studi questi che meritano di essere conosciuti.
Sionismo e Palestina:
il vero scopo dei Sionisti.
da: L’Osservatore Romano,
Anno LXI, Nr. 239, p. 1-2
9 Ottobre 1921, Domenica